Una sconfinata giovinezza

sabato 20_11 ore 21.15
domenica 21_11 ore 21.00


REGIA: Pupi Avati
ATTORI: Fabrizio Bentivoglio, Francesca Neri, Serena Grandi, Gianni Cavina, Lino Capolicchio, Manuela Morabito, Erika Blanc, Vincenzo Crocitti, Osvaldo Ruggieri,
MONTAGGIO: Amedeo Salfa
MUSICHE: Riz Ortolani
PAESE: Italia 2010
GENERE: Drammatico
DURATA: 98 Min
FORMATO: Colore







Lino Settembre e Chicca sono sposati da tanti anni. Un matrimonio felice e affiatato, nonostante le differenze: lui giornalista sportivo per il Messaggero, lei docente universitaria di filologia romanza, proveniente da una famiglia di primari e pianisti, dove tutti figliano come conigli. Lino e Chicca non hanno figli, non sono arrivati, ma quando Lino comincia ad accusare i primi segni di una demenza senile precoce e degenerativa, Chicca si trova a fargli da mamma, ad occuparsene come fosse un bambino.
Dopo Gli amici del bar Margherita, riuscita tessitura di una serie di ricordi dell'adolescenza del regista, Una sconfinata giovinezza appare subito tenuta insieme da un'idea narrativa molto più salda e forte, una storia nel senso più pieno del termine, come poche se ne trovano nel cinema italiano. Pupi Avati non è certo il primo ad aver toccato il tema umanissimo della trasformazione dell'amore coniugale in amore filiale, la letteratura lo esplora da sempre e il cinema lo ha fatto a suo modo recentemente col Benjamin Button di Fincher, ma Avati lo fa ora nel cinema italiano, col suo linguaggio particolare, quasi un idioletto, distinto dalla lingua madre delle produzioni romanocentriche.
Peccato che le scelte di regia non sostengano la dolorosa poesia della trama: peccato per le musiche enfatiche, da drammone, e per il seppia delle sequenze di Lino bambino, che costituiscono in assoluto la parte più magica del film. Può darsi che nella memoria del regista, quei ricordi - perché son tutti veri: dal cane Perché all'incidente d'auto mortale, dalla straordinaria vicenda del brillante ai non meno straordinari fratelli Nerio e Leo - siano registrati con quei colori, ma è più facile che l'artificio filmico canonizzato si sia imposto prima sulla mente che dirige e poi sulla mano che traduce. E peccato, infine, per quei piccoli tentativi di giocare con gli obiettivi per rendere lo spaesamento dettato dalla malattia, insicuri e fuori tono.
Eppure, nonostante tutto questo, che poco non è, il film ha una potenza emotiva irresistibile e tocca corde profonde, che hanno a che fare con la sorte dell'uomo e il bizzarro e struggente mistero dell'infanzia che non finisce mai e, anzi, torna prepotentemente al tramonto (o in autunno, come il cognome del personaggio pare suggerire), non si sa se più per beffa o per consolazione.
Bentivoglio è quello che un protagonista dovrebbe essere: l'unico interprete possibile per quel ruolo, ma gradito è anche il ritorno di Capolicchio e di Cavina, con i loro ruoli ambigui e le loro ombre, che illuminano, per contrasto, l'innocenza del personaggio principale, la sua perdita di ogni retropensiero e l'adesione terminale e totale a una bugia da bambini.
Per Avati ancora e sempre la vita è come un film: giunta alla fine si riguarda dall'inizio. Marianna Cappi


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