L'associazione Arte del Sogno propone il tradizionale venerdì notte per gli appassionati del brivido, con la VIII edizione della cine-maratona horror.
Il tema di quest'anno è Happy Horror Family: tre film dedicati alla "doppia faccia" in famiglia, con un titolo di quest'anno, un titolo del 2000 (ma che è già un classico) e un omaggio agli anni Settanta.
Si inizia alle 21.30 con il film The Visit, del regista M. Night Shymalan (Il sesto senso, Signs): due ragazzini, fratello e sorella, vengono mandati dai loro nonni, in una remota fattoria delle Pennsylvania, per un vacanza di una settimana. Una volta che i bambini scoprono che la coppia di anziani è coinvolta in qualcosa di profondamente inquietante, vedono diminuire di giorno in giorno le possibilità di un loro ritorno a casa...
Durante gli intervalli sarà offerto un buffet. Attenzione! I primi 20 spettatori avranno un omaggio "d'autore", un poster a tiratura limitata realizzato dai due illustratori Loris Bozzato e Claudio Fabris e in collaborazione con La'Mas laboratorio tipografico letterpress.
La biglietteria apre alle ore 21..
venerdì 25_12 ore 18.00 sabato 26_12 ore 15.00 e 18.00 domenica 27_12 ore 15.00 e 18.00
GENERE: Avventura , Family ANNO: 2015 REGIA: Christian Duguay ATTORI: Félix Bossuet, Tchéky Karyo, Margaux Chatelier, Thierry Neuvic, Urbain Cancelier SCENEGGIATURA: Cécile Aubry, Juliette Sales, Fabien Suarez FOTOGRAFIA: Christophe Graillot MONTAGGIO: Oliver Gajan MUSICHE: Armand Amar PAESE: Francia DURATA: 97 Min
Trama
Dopo lo straordinario successo del primo capitolo, tornano Belle e
Sebastien in un'avventura con più azione, nuovi importantissimi
personaggi e sempre tante, tantissime emozioni. Sebastien attende con
ansia il ritorno di Angelina che è in procinto di tornare a casa con
tutti gli onori: è infatti stata insignita di una medaglia al valore per
i servizi resi nel corso della guerra. Il giorno tanto atteso arriva ma
Angelina rimane vittima di un terribile incidente aereo e data per
morta dalle autorità locali. Sebastien però non si rassegna all'idea di
averla perduta e decide di andare a cercarla insieme al nonno e al suo
inseparabile amico a quattro zampe. Nel corso della spedizione di
salvataggio Sebastien si troverà di fronte ad una grande scoperta che
cambierà la sua vita.
GENERE: Drammatico
ANNO: 2015
REGIA: Woody Allen
ATTORI: Emma Stone, Joaquin Phoenix, Parker Posey, Jamie Blackley, Ethan Phillips, Meredith Hagner, Ben Rosenfield, David Aaron Baker, David Pittu
SCENEGGIATURA: Woody Allen
FOTOGRAFIA: Darius Khondji
PAESE: USA
DURATA: 97 Min
Trama
Abe Lucas, professore di filosofia ormai privo di
qualsiasi interesse per la vita, si trasferisce nell'Università di una
cittadina. Preceduto da una fama di seduttore incontra la collega Rita
Richards che cerca di attrarlo a sé per mettersi alle spalle un
matrimonio fallito. C'è però anche la migliore studentessa del corso,
Jill Pollard, che subisce il suo fascino e progressivamente gli si
avvicina. Un giorno i due ascoltano, del tutto casualmente, la disperata
lamentela di una madre che si è vista togliere la tutela di un figlio
da parte di un giudice totalmente insensibile a qualsiasi esigenza
umanitaria. Abe, in quel preciso momento, sente di poter fare qualcosa
per quella donna e, con questo, di poter ridare un senso alla propria
vita.
Recensione
Dopo le atmosfere retrò di Magic in the Moonlight
Woody Allen torna a un presente che lui vede come eternamente
ritornante perché ciò che riguarda il rapporto dell'essere umano con la
propria esistenza può mutare nelle sue manifestazioni ma resta
essenzialmente uguale. Da sempre Woody ci ricorda che Dio è morto, Marx è
morto e anche lui si sente (esistenzialmente) poco bene. I suoi
personaggi sono testimonial di questo suo profondo disagio a proposito
del quale non smette mai di interrogarsi.
La vita non ha senso e, per cercare di attribuirgliene uno o almeno per
non ricordarselo troppo spesso è necessario 'distrarsi'. Per lui la
distrazione è fare cinema. Per Abe potrebbe essere la filosofia di Kant,
di Kierkegaard e di tutti i pensatori le cui aporie sa illustrare con
abilità ai suoi studenti. Il problema consiste però nel far aderire la
teoria alla realtà. È allora che nascono i problemi perché un mondo
kantiano privo della seppur minima menzogna sarebbe l'ideale ma
comporterebbe, ad esempio, la denuncia della famiglia Frank dinanzi a
una precisa domanda dei nazisti.
Che fare allora quando l'altro sesso ti desidera ma tu non lo desideri
più? Quando tutto ti appare come ormai privo di valore tanto da non
temere una roulette russa? Forse allora ti trovi a dare ragione al
Sartre che denuncia che "l'inferno sono gli altri" e individui nell'idea
di fare del bene compiendo il male l'occasione per riprendere in mano
la tua vita. La morte sembra diventare non più la signora con la falce
di Amore e guerra
ma uno strumento per risolvere le conflittualità. Abe ha dietro di sé
una serie di partecipazioni ad attività umanitarie che gli hanno
comunque lasciato il vuoto dentro perché gli sembra non abbiano portato a
un vero cambiamento. Il suo bisogno di lasciare un segno lo accompagna
in fondo da sempre. Tutto il resto gli appare come superficiale. Dopo Crimini e misfatti, Sogni e delitti e Match Point
Allen torna a focalizzarsi sulla morte come estrema ir-ratio per
liberarsi o liberare altri dai problemi. Aveva trattato il tema anche
con il piacere della commedia raffinata in Pallottole su Broadway. Vede anche tornargli utile l'escamotage della casualità dell'ascolto che aveva avuto i suoi effetti comici in Tutti dicono I Love You e profondamente sconvolgenti in Un'altra donna.
Questo significa che Woody si ripete? Forse sì ma lo fa come accade con
la vita di tutti i giorni che a volte ci propone gli stessi quesiti
chiedendoci, col passare degli anni, di ripensare le risposte. In modo
più o meno razionale e tenendo conto delle conseguenze. Che,
nell'universo alleniano, non possono comunque mai sfuggire a una
valutazione morale.
GENERE: Drammatico , Thriller ANNO: 2015 REGIA: Ariel Kleiman ATTORI: Vincent Cassel, Jeremy Chabriel, Nigel Barber, Florence Mezzara SCENEGGIATURA: Ariel Kleiman, Sarah Cyngler FOTOGRAFIA: Germain McMicking MONTAGGIO: Chris Wyatt, Jack Hutchings MUSICHE: Daniel Lopatin PAESE: Australia DURATA: 98 Min
Trama
L’undicenne Alexander vive in una sorta di comune alla periferia
degradata di una città senza nome. Capo della piccola comunità composta
da donne e bambini è un solo uomo adulto, Gregori, figura carismatica
che governa incontrastata elargendo affetto e regole ferree, insegnando
ai bambini a coltivare la terra ma anche a uccidere, sia per procurarsi
il sostentamento vitale che per difendersi da un mondo esterno che
Gregori descrive loro come ostile, ingiusto e crudele. Alexander però è
sveglio e curioso, durante le sue missioni omicide al di fuori dalla
comune raccoglie piccoli oggetti e viene in contatto con gli abitanti di
quel mondo esterno, cominciando a porsi qualche domanda sulle regole
imposte da Gregori e su quel padre padrone di cui ha sempre accettato la
weltanschauung. Recensione Partisan è una parabola su un microcosmo distopico (e
dispotico) in cui pensare con la propria testa vuol dire rischiare
l’isolamento, e forse anche la vita. Il regista australiano Ariel
Kleiman debutta al lungometraggio dopo una manciata di corti
pluripremiati inserendosi in quel circuito festivaliero del quale
condivide pregi e difetti: dalla parte dei difetti la lentezza dilatata,
l’autocompiacimento e anche una certa furbizia nell’usare i codici
espressivi cari ai critici internazionali. Dalla parte dei pregi, e sono
molti, la padronanza del mezzo cinematografico, la capacità di creare
un universo che obbedisce solo alle proprie regole narrative e filmiche
(in perfetta aderenza fra forma e contenuto, trattandosi di una storia
su una comunità autoctona), la volontà di raccontare principalmente per
immagini senza scendere in spiegazioni didascaliche, la qualità
iponotica ed enigmatica della narrazione. Partisan deve sicuramente molto al cinema che lo ha preceduto, da Il signore delle mosche a Dogtooth passando per Mosquito Coast ma anche, per restare in ambiente australiano, per quell’Animal Kingdom che dà anche il nome a uno dei produttori del film di Kleiman. È supremamente aussie
l’abilità nel correlare la ferocia di Gregori e dei suoi piccoli killer
alla bestialità intrinseca nella natura umana, la cui componente ferina
è sempre latente sotto la superficie civilizzata: un contrasto
particolarmente visibile in paesi come l’Australia, dove flora e fauna
selvagge sono ancora dominanti sull’urbanizzazione, e in cinematografie
come quelle di Peter Weir e Bruce Beresford, ma anche del neozelandese
Peter Jackson.
Ad ancorare Partisan in termini di gravitas e
credibilità sono le eccellenti performance di Vincent Cassell nei panni
di Gregori, potente più nel mostrare vulnerabilità ed empatia che nel
lasciar trapelare la violenza repressa e la minaccia sotto l'apparenza
paterna, e del neofita Jeremy Chabriel, di impressionante intensità
espressiva e di evidente (nel senso di ben visibile) fibra morale.
Attraverso questa favola nera, in cui tutta la conoscenza passa
attraverso un unico orco che fornisce il training e gli strumenti per
uccidere ma non quelli per sviluppare un pensiero autonomo, Kleiman
racconta in forma metaforica la tragedia dei bambini soldato cui è
proibita la disobbedienza alla regola omicida, e più in generale la
necessità di mettere in discussione l’autorità e autodeterminarsi,
scegliendo autonomamente l'universo cui vogliamo appartenere.
In prima visione giovedì 3_12 ore 21.15 sabato 5_12 ore 21.15 domenica 6_12 ore 18.00 e 21.15 lunedì 7_12 ore 15.00 (nuova data) martedì 8_12 ore 18.00 e 21.15 giovedì 10_12 ore 21.15 sabato 12_12 ore 21.15 domenica 13_12 ore 18.00 e 21.15
GENERE: Biografico , Drammatico
ANNO: 2015
REGIA: Daniele Luchetti
ATTORI: Rodrigo De La Serna, Sergio Hernández, Muriel Santa Ana, JoséÁngel Egido, Mercedes Moran
SCENEGGIATURA: Daniele Luchetti
PAESE: Italia, Argentina
DURATA: 94 Min
Trama
Jorge Bergoglio è uno studente come tanti nella Buenos Aires degli anni
Sessanta, con amici e fidanzatina, quando decide di entrare a far parte
dell'Ordine dei Gesuiti. Vorrebbe diventare missionario in Giappone ma
non gliene viene data l'opportunità, perché da subito deve apprendere la
virtù dell'obbedienza: sarà proprio questa a porlo di fronte alle
scelte più importanti della sua vita, perché dovrà distinguere fra i
doveri verso la propria coscienza e la sottomissione al regime
dittatoriale di Videla e allo strapotere dei proprietari terrieri in una
terra polarizzata fra grandi ricchezze e grandissime povertà.
Recensione
Daniele Luchetti e il suo produttore, Pietro Valsecchi, si sono buttati
nell'impresa di raccontare la storia di Bergoglio prima che diventasse
Papa con lui ben vivo e presente in Vaticano, senza consultarlo e senza
chiedere la collaborazione dell'istituzione ecclesiastica. Questo ha
dato loro la (relativa) libertà di raccogliere testimonianze da una
quantità di persone più o meno attendibili, di affrontare direttamente
il capitolo più spinoso e controverso della vita dell'allora
Responsabile provinciale gesuita, ovvero il suo rapporto con la
dittatura argentina negli anni fra il 1976 e il 1981, e di prendere le
sue parti dando credibilità alla versione della Storia che lo vede a
fianco dei desaparecidos e dei preti militanti. Il che non significa che
la sceneggiatura sorvoli sul fatto che Bergoglio ha tolto ad alcuni di
questi ultimi la protezione dell'Ordine dei Gesuiti di fatto
consegnandoli al regime, ma significa che concede al suo comportamento
il beneficio di quella doppia lettura che riguarda gran parte della
quotidianità sudamericana, ovvero la coesistenza di una condotta
ufficiale e una ufficiosa, data dalla necessità di muoversi
apparentemente all'interno delle regole per poi trasgredirle di nascosto
seguendo la propria etica. Ed è attraverso un altro sdoppiamento che il
film di Luchetti affronta il rapporto fra la "Chiesa classica", che il
film non esita a descrivere come pavida e conservatrice quando non
apertamente reazionaria e connivente con i poteri forti (fino alla
delazione), e la Chiesa che guarda con simpatia alla "teologia della
liberazione". Non mancano i riferimenti al misticismo, caro alla
tradizione gesuitica e che in Sudamerica (come in una certa Europa
"esoterista") ha da sempre i suoi convinti seguaci.
L'efficacia del racconto sta principalmente nell'aderenza della sua
estetica a quella popolare latina, in rispettosa aderenza della forma al
suo contenuto e all'etnia del suo protagonista. Luchetti si concede
l'apparente elementarità "sudamericana" del racconto dipingendo un
murales di larga accessibilità, e parte da un inizio fortemente
didascalico (ad alto rischio biopic televisivo, nel solco di quelle
"vite dei santi e dei prelati" dominato da Lux Vide) che diventa a poco a
poco cinema, complice anche il potente inserto che ricostruisce
l'inferno dei desaparecidos attingendo a piene mani da Garage Olimpo più ancora che da La notte delle matite spezzate.
Solo alla fine, nella scena della messa di Bergoglio fra i nullatenenti
alla viglia della sua ascesa alla poltrona papale, Luchetti si concede
uno stile fortemente autoriale, facendo lievitare la sua cinematografia
in parallelo all'elevazione spirituale di un uomo che ha imparato il
coraggio passando attraverso lunghe e dolorose mediazioni: un uomo che
oggi si espone dal balcone più visibile del mondo dopo che per una vita
ha invitato gli altri a "non esporsi".
La storia di Bergoglio diventa in Chiamatemi Francesco metafora
di un mondo diviso fra chi distoglie lo sguardo e chi sceglie di
vedere, e in questo è supremamente cinematografica. L'Argentina dei
dittatori, così come quella dei latifondisti che tolgono le terre ai
contadini, è un mondo anche visivamente diviso in un sopra e un sotto,
laddove il sotto diventa prigione o rifugio, visibile o invisibile, a
seconda di chi effettua l'opera di occultamento, e dei motivi alti o
bassi per cui sceglie di farlo. E la compulsione del giovane Bergoglio a
"fare quel che si può fare" diventa nella maturità quella capacità
(quantomeno dichiarata) di spingersi alle estreme conseguenze del
pensiero cristiano, negando ogni complicità con chi opera in direzione
contraria.
Grande importanza nella formazione morale di Bergoglio e nella sua acquisizione di coraggio e consapevolezza è data in Chiamatemi Francesco
alle donne. Senza calcare troppo la mano, Luchetti e il suo
cosceneggiatore argentino Martin Salinas intessono la trama di figure
femminili forti e anticonformiste, gettando i semi di quel pensiero
papale tanto favorevole all'energia muliebre da far sperare nel futuro
accesso delle donne al sacerdozio. La qualità portante del Bergoglio di
Luchetti è infatti la propensione alla cura, più spesso identificata col
materno perché comporta un obbligo inderogabile di protezione altrui.
Grande freccia all'arco di Luchetti è infine Rodrigo de la Serna,
umanissimo attore argentino che porta con sé (cinematograficamente
parlando) il ricordo di almeno due sue interpretazioni memorabili e
supremamente attinenti: quella di Alberto Granado ne I diari della motocicletta, portatore insieme al Che del pensiero socialista in Sudamerica, e quella del desaparecido evaso in Cronaca di una fuga - Buenos Aires 1977.
La sua interpretazione nei panni del giovane Jorge scansa l'agiografia e
fa leva sulla dignità personale dell'attore per portare mano nella mano
gli spettatori senza mai stancarli, pur restando praticamente sempre al
centro della scena. Sergio Hernandez, l'attore cileno che ricordiamo in
Gloria e in No - I giorni dell'arcobaleno,
non è da meno nei panni del Bergoglio più anziano, la cui risata finale
è presa d'atto definitiva e gioiosa della suprema ironia della vita.
Paola Casella
GENERE: Drammatico ANNO: 2015 REGIA: César Augusto Acevedo ATTORI: Haimer Leal, Hilda Ruiz, Marleyda Soto, Edison Raigosa, José Felipe Cárdenas SCENEGGIATURA: César Augusto Acevedo FOTOGRAFIA: Mateo Guzman MONTAGGIO: Miguel Schverdfinger PAESE: Colombia DURATA: 97 Min
Trama
Alfonso, anziano campesino che ha lasciato la sua famiglia e la
sua terra diciassette anni prima, ritorna a casa. A muoverne i passi la
salute del figlio, che versa in condizioni precarie a causa di una
malattia respiratoria. Tollerato a fatica dalla vecchia consorte, che
non gli perdona il passato, Alfonso partecipa con valore e pudore
all'economia domestica famigliare, accudendo figlio e nipote in assenza
delle donne, occupate in una piantagione di canna da zucchero.
Subentrate nella raccolta a Geraldo, suocera e nuora combattano ogni
giorno contro l'asprezza del mestiere e l'illegittimità di un regime
lavorativo che pretende produttività in cambio di un salario prorogato.
Esperanza vorrebbe andar via ma Geraldo è bloccato dall'affezione e
dall'affetto che porta a quella madre ostinata a restare e resistere
nella sua fattoria mentre la campagna intorno brucia sotto il vento del
'progresso'. Tra un incendio che avvampa e una vita smorzata, tra un
aquilone che si solleva e troppa polvere che si posa, Alfonso infilerà
nuovamente la strada per scampare il nipote e mettere in movimento il
domani.
Recensione
Opera prima di César Acevedo, Un mondo fragile è tutto in un
piano sequenza, quello iniziale. Un uomo si stacca dal fondo e avanza
con una valigia in mano lungo una strada sterrata, dietro di lui un
enorme camion compare sollevando al suo passaggio la polvere. Raggiunto
l'uomo con la valigia il mezzo produce un suono d'apocalisse
avvolgendolo in una nuvola di polvere. Polvere invalidante che penetra
l'esistenza e spezza il respiro degli uomini. In un minuto il regista
colombiano riassume quello che Christopher Nolan ha impiegato lustri a
spiegare: quella 'terra' è invivibile a lungo termine per chi avesse
deciso per un avvenire a lungo termine. Eppure da qualche parte, nella
Colombia arida di Acevedo, una donna prova a resistere dentro la sua
fattoria e a fianco del figlio, riparato sotto un lenzuolo bianco, che
rinforza poeticamente l'impressione di osservare qualcuno già morto e
protegge i suoi polmoni dal mondo esteriore, che piove cenere, terra,
polvere.
Ed è la polvere a comporre il film di Acevedo e a diventare componente
dei suoi quadri. È dappertutto, entra da porte e finestre (senza vetri),
penetra da ogni angolo di piano, vola, si deposita e si confonde al
fumo dei campi, incendiati da una volontà di potare e 'recidere'. È
ancora lei a spingere i protagonisti all'esilio per far meglio che
sopravvivere con un lavoro che tende le braccia come rami ma non paga
(letteralmente). In parallelo al nucleo familiare rurale, raccolto in
una 'veglia funebre' precorsa, Un mondo fragile svolge la
ribellione e la rassegnazione dei raccoglitori di canna da zucchero a
cui il giorno di paga è rimesso sempre all'indomani, come un peccato. In
questa terra appiccata dal 'progresso' e soffocata nei sogni, ritorna
un uomo, un fantasma dal passato, una 'voce' aggrappata a una società
rurale che sembra uscita dalle pagine di Juan Rulfo.
Dell'orizzonte magico della letteratura di Rulfo, Un mondo fragile
condivide la pienezza arcaica e l'universo interiorizzato, frammentario
e fantasmagorico, un luogo lontano dalla modernità non per convinzione
ma per mancanza di mezzi. Un mondo muto e isolato dove i protagonisti
osservano la propria vita scorrere, il proprio nipote giocare, la
propria consorte appassire, il proprio figlio morire. Nessuno se ne
lamenta, così è la vita. Ogni generazione genera la seguente cosciente
che quell'esistenza, con le sue espressioni di gioia e le sue lunghe
frasi di tristezza, si paga, qualche volta troppo cara. Una vita che
passa tutta tra una casa, un albero, una panchina e le piantagioni
intorno dove guardiamo un uomo cercare di nuovo il suo posto in
famiglia. Una famiglia che vuole salvare, voltando pagina e scommettendo
sul nuovo. Alfonso non si trasforma, non rinnega e non nega, si
posiziona nella sua stessa identità, di fronte a se stesso e alla sua
verità che non è altro se non la libertà di scegliere come si vuole
vivere.
César Acevedo indaga con occhi (im)pietosi e lucidi il presente e il
recente passato del suo paese, la fase acuta di una crisi sociale
esplorata da un cinema intraprendente che fa il paio con quello di Pablo Trapero (El Clan), Pablo Larraín (The Club), Lorenzo Vigas (Desde allà), Gabriel Mascaro (Boi Neon).
Un cinema vivo, fisico e immerso, capace di tradurre il senso di un
profondo disagio collettivo in espressioni di rinascita. Un cinema 'in
marcia' con una qualità pressoché unica oggi: quella di essere
necessario. Marzia Gandolfi
Trama
Luciana vive ad Anguillara, lavora in fabbrica ed è sposata con Stefano,
disoccupato cronico pieno di idee multimilionarie ma refrattario
all'idea di "stare sotto padrone". Da tempo desiderano un figlio che non
arriva, ma quando il loro sogno si avvera il datore di lavoro di
Luciana si rifiuta di rinnovarle il contratto "a tempo determinato",
vista la gravidanza in corso. Antonio è un poliziotto veneto trasferito
ad Anguillara con disonore e accolto con scherno dai colleghi. Appena
arrivato si confronta con le peculiarità del paese, a cominciare dai
ripetitori che trasmettono la messa dai citofoni e dai lavandini di casa
(insieme a una serie di radiazioni pericolose). Il suo è un percorso di
espiazione costellato dalle punizioni del capo e le mortificazioni dei
compagni di pattuglia.
Recensione
Fin dalla descrizione dei due protagonisti paralleli, Gli ultimi saranno ultimi
mostra come la sua storia potrebbe sconfinare ogni momento in farsa o
in tragedia, e infatti la narrazione cammina in bilico su questo
crinale, in quella tradizione del cinema italiano che attinge alla
realtà e al carattere nazionale per declinarsi in tutte le sue sfumature
tragicomiche. Scritto e diretto da Massimiliano Bruno, Gli ultimi saranno ultimi
nasce come pièce teatrale ma nella trasposizione cinematografica
attinge alla luminosità morbida e clemente della provincia laziale,
allargando lo spazio a molti caratteri riconoscibili: gli amici, i
vicini, la single "collezionista", la poliziotta goffa e sfortunata, la
guardia giurata affettuosa (e quella letargica), l'apprendista ambiziosa
(più per disperazione che per vocazione). Ognuno brilla grazie a una
scrittura precisa e credibile, e all'interpretazione esatta ed empatica
di un cast di ottimi caratteristi: la deliziosa poliziotta Maria Di
Biase, gli amici Silvia Salvatori, Emanuela Fanelli, Giorgio Caputo e
Marco Giuliani. Bravissimi anche Diego Ribon nei panni di un
sindacalista da prendere a ceffoni, Duccio Camerini padrone di casa e
Francesco Acquaroli padrone delle ferriere, Ariella Reggio mamma di
Antonio.
Ovviamente la parte del leone va a Paola Cortellesi (Luciana), perfetta
come sempre: tenera, stressata, commovente, buffa, patetica. Le tiene
testa uno straordinario Alessandro Gassmann (il marito Stefano) che dà
prova inconfutabile, con apparente leggerezza, della sua raggiunta
maturità d'attore, e della sua capacità tutta italica (parliamo di
commedia all'italiana) di essere insieme gaglioffo e gagliardo. Fabrizio
Bentivoglio fa più fatica a risultare credibile nella sua volontà
programmatica di calarsi nei gesti e nell'accento del poliziotto
Antonio, ma rende bene la gravità del personaggio. Accanto a loro
Stefano Fresi e Ilaria Spada lasciano come al solito il segno, e Irma
Carolina di Monte interpreta con precisione forse il personaggio più
originale del film. Vale la pena dettagliare il lavoro degli attori
perché la regia è completamente al loro servizio, ne segue i movimenti
interiori ed esteriori, resta loro addosso: nella scena della
conversazione al ristorante la cinepresa pare un bambino che cerca di
non perdersi neppure una parola, neppure una smorfia di quello che
dicono i grandi. Gli ultimi saranno ultimi racconta con strazio e
partecipazione, ma anche con umorismo e levità, le vicende di un gruppo
di italiani del presente stretti fra la crisi e la necessità di negarla,
strozzati dalla paura e la vergogna, sempre più limitati nelle loro
possibilità e nei loro margini di scelta. Persone che non riescono più a
vedere ciò che sta davanti ai loro occhi, che prendono derive deleterie
senza nemmeno rendersene conto, che vedono la loro dignità
costantemente sotto attacco e tentano di difenderla come possono.
Persone stanche, che smettono di essere ragionevoli e sbroccano o,
peggio ancora, vanno lentamente alla deriva. Bruni le racconta con una
delicatezza che si tiene al di qua della melensaggine e del melodramma
(anche se alcune sottolineature musicali sono davvero esagerate) e
gradualmente ci leva la pelle, lasciandoci scoperti, nudi davanti a ciò
che siamo diventati, ognuno macchiandosi di piccole e grandi nefandezze.
E racconta senza peli sulla lingua alcune grandi verità contemporanee,
prima fra tutte quella che "senza il lavoro si puzza", e che homo sine pecunia est imago mortis: laddove homo sta per "essere umano", maschio e femmina. Paola Casella
GENERE: Family , Avventura ANNO: 2015 REGIA: Stuart McDonald ATTORI: Alan Tudyk, Sarah Snook, Coco Jack Gillies, Terry Camilleri, Deborah Mailman, Richard Davies SCENEGGIATURA: Stuart McDonald MUSICHE: Cezary Skubiszewski PAESE: Australia DURATA: 95 Min
Trama
Middle Island è una riserva naturale che ospita una colonia di pinguini
minori, i più piccoli del mondo. Purtroppo i pinguini vengono razziati
dalle volpi e la colonia si sta velocemente riducendo di numero, al
punto che il comune locale medita di destinare l'isolotto a un
osservatorio di balene, che sulla costa australiana non mancano. Ma la
famiglia custode della colonia non accetta questa fine, anche perché
vuole rendere onore alla memoria della persona che aveva fondato e
protetto la riserva. La famigliola è composta da Swampy, vedovo della
fondatrice, sua figlia Emily e la figlia di Emily, Olivia, cui si
aggiunge un membro acquisito, il cane Giotto. Giotto è un pastore
maremmano che sembra aver perso l'istinto del guardiano, finché non si
imbatte in un pinguino minore di cui diventa istantaneamente protettore.
Come utilizzare il talento ritrovato del cagnone bianco per scongiurare
l'estinzione dei pinguini? Recensione Giotto, l'amico dei pinguini è un film australiano basato su
una storia reale: esistono infatti un vero Swampy e un vero Giotto, così
come esiste la colonia presso la cittadina di Warrnambool che ha
davvero rischiato di spopolarsi. Una buona sceneggiatura fa il resto,
lavorando sulla caratterizzazione dei personaggi e inserendo elementi di
suspence (a misura di bambino) che rendono la trama avvincente. C'è
anche molto humour anglosassone, e un che di farsesco impersonato sia da
nonno Swampy che, più avanti, dal guardiano Jack che deve smaltire una
comicissima "sbornia".
La regia lavora sui paesaggi incontaminati della costa australiana
accentuandone la magia esotica e orchestra efficacemente l'interazione
di attori di varie generazioni e animali di varie razze (e taglie). Il
risultato è un film per bambini che diverte anche i grandi, armonioso
nella sua evoluzione narrativa e gradevole nella cura dell'immagine.
Anche l'utilizzo di alcuni espedienti di regia e di montaggio, dal
ralenti al "duello di sguardi" fra Olivia e un feroce accalappiacani,
funziona senza distogliere dal cuore della trama che è smaccatamente
emotivo, e riguarda i legami fra i membri della famiglia di Swampy,
segnati dall'assenza della moglie, nonna e madre scomparsa. Giotto
piacerà ai bambini ancora di più nella fase in cui combina solo guai che
in quella in cui diventa un ottimo "pastore di pinguini", ma è il
rapporto fra lui e Swampy, interpretato con grande calore dall'attore
australiano Shane Jacobson, il motore della storia. L'unico volto noto
in Italia del cast è il comico americano Alan Tudyk, che però viene
superato in risate da Richard Davies, interprete di una serie televisiva
per bambini che in Australia è diventata un cult, senza dubbio anche
per merito suo.
Paola Casella
GENERE: Commedia , Drammatico
ANNO: 2015
REGIA: Maya Forbes
ATTORI: Mark Ruffalo, Zoe Saldana, Keir Dullea, Wallace Wolodarsky, Beth Dixon, Georgia Lyman
SCENEGGIATURA: Maya Forbes
FOTOGRAFIA: Bobby Bukowski
MONTAGGIO: Michael R. Miller
MUSICHE: Theodore Shapiro
PAESE: USA
DURATA: 90 Min
Trama
Massachusetts, 1978. Cameron Stuart è un padre
affettuoso e un marito innamorato. Purtroppo però è anche maniaco
depressivo, non riesce a tenersi stretto un lavoro ed ha appena avuto un
esaurimento nervoso. La moglie Maggie, per il bene delle figlie Amelia e
Faith, allontana Cameron da casa, ma il poco lavoro che riesce a
trovare con il suo titolo di studi non permette a lei e alle bambine di
vivere sopra la soglia di povertà. Cam, dal canto suo, riceve un
sussidio minimo dalla nonna, la quale gestisce con grande parsimonia
(leggi: avarizia) i fondi (multimiliardari) della famiglia Stuart.
Per migliorare le proprie chance di ottenere un lavoro remunerativo e
quelle di Amelia e Faith di ricevere un'istruzione adeguata, Maggie si
iscrive al Master of Business Administration della Columbia University e
viene accettata. Peccato che la Columbia sia a New York, e la donna
deve decidere se trapiantare la sua intera famiglia o assumersi un
rischio molto alto: quello di lasciare le bambine con il padre in
Massachusetts. Di comune accordo, i genitori decidono per la seconda
soluzione. Riuscirà Cameron a gestire la situazione? Recensione
Maya Forbes, erede della dinastia editoriale e affermata sceneggiatrice
televisiva (sulla base del proprio talento), esordisce (a 45 anni) sul
grande schermo con il lungometraggio Infinitely Polar Bear (il
titolo fa riferimento all'equivoco della piccola Faith circa il disturbo
"polare" del padre). La storia del film è quella di Maya e di sua
sorella China, allevate per un lungo periodo dal padre, Cameron Forbes,
affetto da disturbo bipolare, mentre la madre studiava per ottenere
l'Mba alla Columbia.
Forbes narra dunque la sua storia con molte concessioni all'entertainment,
dovute probabilmente sia al desiderio di rendere commercialmente
appetibile un lungometraggio che affronta lo spinoso argomento della
malattia mentale, sia ad una forma di protettività nei confronti del
padre, ora deceduto. Infinitely Polar Bear sguazza nel
caramello dei ricordi (complici anche la scelta dei colori e alcuni
inserti in stile "home movies"), talvolta edulcorando in modo eccessivo
una vicenda che, nella realtà, ha certamente avuto risvolti meno rosei.
Il fattore nostalgia, caldeggiato dal produttore J. J. Abrams (in
modalità Super 8), è accentuato da una strepitosa colonna sonora anni '70 che rende vintage e ritmato ogni passaggio della narrazione.
Ma al cuore del racconto c'è un pathos autentico e una salvifica ironica
con i quali è impossibile non entrare in sintonia, e al centro quattro
attori irresistibili, a cominciare da Mark Ruffalo nei panni di Cam.
L'attore presta il suo carisma personale ad un personaggio complesso e
contradditorio che passa da gesti di infinito amore a momenti di intensa
violenza verbale e imperdonabili mancanze di responsabilità
genitoriale. Accanto a lui, Zoe Saldana è efficace nei panni della madre
divisa fra bisogni e sentimenti e le due piccole non-attrici (la più
grande è la figlia della regista) sono naturali e spontanee. È
attraverso lo sguardo di Amelia (ovvero quello della regista da piccola)
che Forbes narra la storia di un uomo meraviglioso e imbarazzante,
geniale e ingestibile, con la tenerezza che solo una figlia innamorata
del padre sa elargire a piene mani.
Paola Casella Approfondimenti video foto scheda completa
martedì 24_12 ore 21.15
Rassegna Grande Arte al Cinema
“Teatro alla Scala. Il Tempio delle Meraviglie” è il film evento dedicato a uno dei templi più esclusivi della musica e dello spettacolo mondiale, un luogo dove l’arte si costruisce, si rappresenta, si vive.
Il film, che arriverà nelle sale italiane il 24 e 25 novembre nell’ambito del progetto della Grande Arte al Cinema di Nexo Digital (elenco delle sale su www.nexodigital.it), racconta la storia del Teatro che più di ogni altro ha catturato e legato a sé indissolubilmente i più grandi nomi della scena musicale di tutti i tempi. Giuseppe Verdi, Giacomo Puccini, Arturo Toscanini, Maria Callas, Luchino Visconti hanno fondato il mito di un luogo, animato in anni più recenti da artisti come Claudio Abbado e Riccardo Muti, che ancora oggi suscita un senso di sacralità: nel film ce lo raccontano tra gli altri i direttori d’orchestra Daniel Barenboim e Riccardo Chailly, i cantanti Mirella Freni e Plácido Domingo, i ballerini Carla Fracci e Roberto Bolle oltre ai Sovrintendenti Pereira, Lissner e Fontana.
Inaugurato nel 1778, il Teatro alla Scala di Milano è il luogo dove è nata la tradizione della grande opera italiana. Le emozioni assorbite dalle tende di velluto, dal legno del palcoscenico, dalle poltrone in platea sono vive ancora oggi e riemergono ogni notte, nel momento stesso in cui le luci si abbassano, il pubblico ammutolisce e inizia lo spettacolo. Così le videocamere, accompagnate dalla voce narrante di Sandro Lombardi, percorrono i corridoi e ci fanno respirare 237 anni di storia: una delizia per lo spettatore in un maestoso susseguirsi di scoperte e rivelazioni.
Gli autori Luca Lucini e Silvia Corbetta hanno dichiarato: “Immediatamente è stato chiaro che se avessimo voluto carpire i segreti di quasi 250 anni di storia del Teatro alla Scala di Milano, avremmo dovuto narrare ciò che la Scala è: una fabbrica di emozioni e un luogo unico al mondo, dove si concentrano passione, sacrificio, talento e dedizione. Abbiamo abbandonato la rigidità del racconto prettamente cronologico e ci siamo lasciati trasportare dalle rapide di un fiume fatto di luci, musiche, immagini, silenzi”.
“Teatro alla Scala. Il Tempio delle Meraviglie” vede anche la fotografia di Luca Bigazzi e la partecipazione straordinaria di Bebo Storti nel ruolo di Domenico Barbaja, Francesca Inaudi nel ruolo di Marietta Ricordi, Filippo Nigro nel ruolo di Bartolomeo Merelli, Giuseppe Cederna nel ruolo dell’Ingegnere Giuseppe Colombo, Andrea Bosca nel ruolo del concierge del Grand Hotel et de Milan, Gigio Alberti nel ruolo di Luigi Illica e Pia Engleberth nel ruolo di Biki.
Tra le location d’eccellenza che compaiono nel film anche il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia con la centrale termoelettrica Regina Margherita, che fa da sfondo alla ricostruzione di una scena in cui l’ingegner Colombo “attiva” la luce elettrica alla Scala.
“Teatro alla Scala. Il Tempio delle Meraviglie”, distribuito nel mondo da Nexo Digital, è prodotto da Skira Classica, Arte France, RAI Com e Camera Lucida e realizzato in associazione con Intesa Sanpaolo S.p.A. ai sensi delle norme sul Tax Credit. Si ringrazia il Teatro alla Scala per la collaborazione.
GENERE: Commedia ANNO: 2015 REGIA: Nancy Meyers ATTORI: Robert De Niro, Anne Hathaway, Drena De Niro, Nat Wolff, Rene Russo, Adam DeVine, Andrew Rannells, Linda Lavin SCENEGGIATURA: Nancy Meyers FOTOGRAFIA: Stephen Goldblatt MONTAGGIO: Robert Leighton PAESE: USA DURATA: 121 Min
Una società di moda assume uno stagista decisamente fuori dagli schemi:
Ben Whittaker (Robert De Niro) un settantenne pensionato che ha scoperto
che in fondo la pensione non è come immaginava e decide così di
sfruttare la prima occasione utile per rimettersi in pista. Nonostante
le diffidenze iniziali, Ben dimostrerà alla fondatrice della compagnia
(Anne Hathaway) di essere una valida risorsa per l'azienda e tra i due
nascerà un'inaspettata sintonia.
GENERE: Commedia , Family , Fantasy
ANNO: 2015
REGIA: Tobi Baumann
ATTORI: Anke Engelke, Milo Parker, Karoline Herfurth
SCENEGGIATURA: Tobi Baumann, Murmel Clausen, Mike O'Leary, Martin Ritzenhoff, Roland Slawik, Christian Tramitz
MONTAGGIO: Alexander Dittner
MUSICHE: Ralf Wengenmayr
PAESE: Germania, Austria, Irlanda
DURATA: 99 Min
Il piccolo e solitario Tom scopre nella sua cantina un piccolo fantasma
verde e gelatinoso, che gli racconta di essere dovuto fuggire dal
maniero dove abitava a causa dell'arrivo di uno spirito malvagio. Tom
decide di chiedere aiuto alla scontrosa Hetty, un'acchiappafantasmi
appena licenziata dalla sua organizzazione segreta, con la quale
riusciranno a sconfiggere il terribile nemico.
Un taxi attraversa le strade di Teheran in un giorno qualsiasi.
Passeggeri di diversa estrazione sociale salgono e scendono dalla
vettura. Alla guida non c'è un conducente qualsiasi ma Jafar Panahi
stesso impegnato a girare un altro film 'proibito'.
Panahi è stato condannato dalla 'giustizia' iraniana a 20 anni di
proibizione di girare film, scrivere sceneggiature e rilasciare
interviste, pena la detenzione per sei anni. Ma non c'è sentenza che
possa impedire ad un artista di essere se stesso ed ecco allora che il
regista ha deciso di continuare a sfidare il divieto e ancora una volta
ci propone un'opera destinata a rimanere quale testimonianza di un
cinema che si fa militante proprio perché non fa proclami ma mostra la
quotidianità del vivere in un Paese in cui le contraddizioni si fanno
sempre più stridenti.
I passeggeri che salgono sul taxi esprimono posizioni differenti nei
confronti della società in cui vivono. Si va da chi vorrebbe applicare
pene capitali 'esemplari' a chi invece difende giovani donne 'colpevoli'
di essersi fatte trovare non dentro ma solo nei pressi di uno stadio
(il cui accesso è consentito unicamente agli uomini). Ma ci sono anche
anziane signore con pesci rossi al seguito o bambine intellettualmente
vivaci. Ad un certo punto l'auto carica un ferito accompagnato dalla
giovane moglie. L'uomo, sentendosi vicino alla morte, vuole fare
testamento per impedire che alla consorte venga sottratta la casa in cui
vivono. La telecamera incorporata in un telefonino ne riprende
quelle che dovrebbero essere le ultime volontà. In questo gesto si può
cogliere un valore simbolico: grazie alle più recenti tecnologie è
sempre più difficile per i regimi impedire agli individui di fare
testimonianza di quanto accade. Jafar Panahi è uno di loro e con
quella leggerezza che nasce solo da una lettura profonda della società
ci racconta la realtà che lo circonda facendo uso della finzione (i
passeggeri sono attori che a loro volta rischiano nel partecipare al
film che infatti è privo di credits). Ma raramente la finzione è stata
così 'vera' al cinema. Giancarlo Zappoli
GENERE: Drammatico
ANNO: 2015
REGIA: Simon Curtis
ATTORI: Helen Mirren, Ryan Reynolds, Katie Holmes, Tatiana Maslany, Daniel Bruehl, Max Irons, Charles Dance, Antje Traue, Elizabeth McGovern, Frances Fisher, Moritz Bleibtreu, Tom Schilling
SCENEGGIATURA: Alexi Kaye Campbell
MUSICHE: Hans Zimmer
PAESE: USA, Gran Bretagna
DURATA: 109 Min
Trama
Maria Altmann, è una donna ebrea fuggita da Vienna poco dopo l'arrivo
dei nazisti che saccheggiando la sua abitazione trafugarono un prezioso
quadro di Gustav Klimt, la Donna in Oro, in seguito restituito al
governo Austriaco. Cinquanta anni dopo la coraggiosa donna decide di
sfidare le autorità Austriache con l'aiuto di un giovane avvocato per
chiedere che le venga restituito ciò che era suo.
GENERE: Drammatico , Sentimentale , Commedia ANNO: 2014 REGIA: Lucas Belvaux ATTORI: Émilie Dequenne, Loïc Corbery, Sandra Nkake, Charlotte Talpaert, Anne Coesens, Daniela Bisconti, Didier Sandre, Martine Chevalier SCENEGGIATURA: Lucas Belvaux MONTAGGIO: Ludo Troch PAESE: Francia DURATA: 111 Min
Trama
Professore di filosofia, scrittore engage e
amante volubile, Clément Le Guern è trasferito da Parigi a Arras, un
piccolo centro a nord della Francia dove alloggia in un hotel e patisce
il suo esilio. Annoiato dalla vita di provincia trova interesse e
soddisfazione in Jennifer, bionda e vivace parrucchiera che adora i film
con Jennifer Aniston e alleva un figlio da sola. Separata e in cerca
del vero amore, Jennifer si innamora profondamente di Clément, che cita
Kant e pratica il cinismo sentimentale. Tra un libro di Anna Gavalda e
un romanzo di Émile Zola, il professore e la parrucchiera sembrano
intendersi e capirsi sotto le lenzuola. Ma fuori dal letto e alla luce
del sole, Jennifer comprende che il suo bisogno di amare, la sua voglia
di amare e il suo amore per Clément vengono inesorabilmente frustrati
dalla barriera culturale e sociale che l'uomo ha alzato tra loro.
Recensione
Adattamento del romanzo di Philippe Vilain ("Pas son genre"), Sarà il mio tipo?
è una commedia sentimentale fondata sulle differenze sociali dei due
protagonisti. Lei parrucchiera, lui intellettuale, lei provinciale, lui
parigino, lei legge i romanzi popolari, lui quelli di Proust, lei è
fanatica del karaoke, lui assiduo dei vernissage. Ma sarebbe un errore
ridurre il film di Lucas Belvaux a un inventario di luoghi comuni perché
Sarà il mio tipo? parte dai cliché ma arriva più lontano, in
un territorio imprevedibile, dove l'amore è sottoposto a scansione
sociale e la felicità romantica impedita da un irriducibile
contraddittorio culturale.
È vero che Belvaux tratta il suo film secondo la ricetta classica della screwball comedy
hollywoodiana, filmando l'avventura sentimentale di due contrari e di
come ciascuno di loro provi a frequentare il territorio dell'altro, ma
la svagatezza e il folgorante stordimento dei contendenti al debutto
precipitano molto presto davanti all'inflessibilità dei rapporti di
classe. Il protagonista, che fa colazione a Les Deux Magots, respira
l'aria letteraria di Saint-Germain-des-Prés e non si aspetta niente dal
suo soggiorno in provincia se non che finisca il prima possibile, è un
uomo velleitario, simile a certi intellettuali rohmeriani, indecisi e
logici che razionalizzano le loro pulsioni, calcolano i loro sentimenti e
analizzano i loro affetti tenendogli a distanza. Al suo fianco,
Jennifer esprime diversamente una femminilità estroversa, un carattere
esuberante, una fiducia nell'amore, un gusto per i colori e le canzoni
che l'avvicinano alle demoiselles di Jacques Demy.
Commedia sospesa tra due personaggi, due classi sociali e due 'caratteri' cinematografici tipicamente francesi, Sarà il mio tipo?
ha tutta la saggezza della sua protagonista, la Jennifer disarmante di
Émilie Dequenne, che comprende a sue spese che l'amore non è sempre più
forte di tutto. Soprattutto delle etichette e dei determinismi sociali.
Così nel bel mezzo di un carnevale, il professore e la parrucchiera
tolgono la maschera, scoprendosi prigionieri entrambi di un 'mestiere'.
Senza rinunciare mai alla generosità dello sguardo, Belvaux li scopre
alle prese coi loro retaggi e con il loro eterogeneo habitus, decretando una tregua della guerra di classe ma non dichiarandone la fine.
Rivelata da Rosetta, Émilie Dequenne s'impone quindici anni dopo il dramma dei Dardenne
con un altro personaggio indimenticabile, sorprendente e intenso le cui
modeste origini rimandano con evidenza alla sedicenne che lottava per
la sopravvivenza nella periferia di Liegi. Con la stessa determinazione
l'attrice interpreta una proletaria che smaschera il professore
impassibile di Loïc Corbery e sfata la falsa modestia della sua
filosofia esistenziale, smettendo di attendere al di là della barricata e
sopravvivendo, come nella canzone di Gloria Gaynor. Perché
Jennifer, meno colta ma non per questo meno intelligente di Clément, che
ha fatto della sua incapacità di amare una teoria generale delle
relazioni umane, prende le forbici e ci dà un taglio. Senza amore né
bene resta Clément, (in)colto e incolore dietro a una porta chiusa.
Marzia Gandolfi
Approfondimenti video foto
GENERE: Commedia
ANNO: 2015
REGIA: Guido Chiesa
SCENEGGIATURA: Giovanni Bognetti, Guido Chiesa
ATTORI: Diego Abatantuono, Francesco Facchinetti, Andrea Pisani, Antonio Catania, Matilde Gioli, Marco Zingaro, Barbara Tabita, Uccio De Santis, Niccolò Senni, Francesco Di Raimondo
FOTOGRAFIA: Federico Masiero
MONTAGGIO: Claudio Di Mauro
PAESE: Italia
DURATA: 100 Min
Trama
Un padre può mantenere cento figli, ma tre figli riuscirebbero a mantenere
un padre? Vincenzo è un imprenditore di successo. Vedovo, rimasto
improvvisamente solo, deve badare a tre figli ventenni, Matteo, Chiara e
Andrea, che rappresentano per lui un vero e proprio cruccio. I ragazzi
vivono, infatti, una vita piena di agi, ma senza senso e
soprattutto ignari di qualsiasi responsabilità, con una quotidianità
leggera, lontana dai doveri e dalla voglia di guadagnarsi la vita.
Vincenzo tenta perciò di riportarli alla realtà: una messinscena con cui
fa credere ai figli che l'azienda di famiglia stia fallendo per
bancarotta fraudolenta. Sono perciò costretti ad un’improvvisa fuga
degna di veri
latitanti. I quattro si rifugiano in una vecchia e ormai malconcia casa
di famiglia in Puglia. Per sopravvivere, Chiara, Matteo e Andrea
dovranno cominciare a fare qualcosa che non hanno mai fatto prima:
lavorare.
GENERE: Drammatico
ANNO: 2014
REGIA: Ruben Östlund
SCENEGGIATURA: Ruben Östlund
ATTORI: Kristofer Hivju, Lisa Loven Kongsli, Johannes Kuhnke, Clara Wettergren, Vincent Wettergren
FOTOGRAFIA: Fredrik Wenzel
PAESE: Svezia
DURATA: 118 Min
Trama
Tomas e Ebba sono i genitori di Vera e Harry. Tomas lavora molto, dunque
questa vacanza sulle Alpi, hotel di lusso e giornate dedicate allo scii
tutti insieme, parte con grandi aspettative. Ma accade un imprevisto.
Mentre siedono per pranzo ai tavoli all'aperto di un ristorante
panoramico, una valanga si dirige a grande velocità verso di loro e pare
destinata a travolgerli. L'istinto di Tomas è quello di mettersi in
salvo il più in fretta possibile, l'istinto di Ebba è quello di
proteggere i figli ed eventualmente morire con loro. La valanga si
arresta prima e i quattro rientrano sani e salvi. Ma qualcosa nella
coppia si è incrinato ed è una crepa che è destinata ad aprirsi sempre
di più.
Recensione
Basta questo breve resoconto dell'incipit del film per capire che siamo
in presenza di un'ottima idea, che il regista svedese, già autore del
notevole Play , sa sfruttare al meglio.
Colpito dai risultati di una serie di ricerche che osservavano un
incremento dei divorzi nelle coppie sopravvissute ad un'esperienza
fortemente drammatica (un dirottamento o uno tsunami, per esempio),
Ostlund raccoglie la suggestione e la trasforma in cinema, innescando un
parallelismo tra il percorso inarrestabile di un'emozione e quello del
tutto simile di una slavina.
Come nel miglior cinema d'alta montagna, allora, il corpo e la psiche
degli attori si muovono in silenziosa corrispondenza con la natura,
libera e minacciosa, ma non si pensi ad un film drammatico, perché con Turist
si ride moltissimo. Come in una commedia degli equivoci, infatti, il
virus che ha colpito Tomas e Ebba si diffonde rapidamente ad intaccare
le certezze dei loro ospiti più giovani, modificandosi per adattarsi
alle diverse condizioni della loro coppia ed esacerbare i loro specifici
non detti.
La trasferta della famiglia svedese nelle montagne francesi è anche
l'occasione, per il regista, per guardarsi dall'esterno e criticare il
mito della solidarietà scandinava di contro alla legge della giungla
dell'individualismo, del dialogo come pratica consolidata di contro agli
accessi d'ira o alle scenate d'isteria, e soprattutto del discorso di
genere politicamente corretto, per cui le differenze tra uomini e donne
sono diventate un argomento curiosamente tabù.
Le lunghe inquadrature a macchina fissa, marchio di fabbrica del regista
e dichiarazione aperta di una poetica che aspira a mescolare ironia ed
entomologia, si arricchiscono in quest'occasione della potenza evocativa
che viene dal paesaggio, dal suo bianco destabilizzante e dalle
profondità delle gole, in esterni, ma anche dall'architettura degli
interni, tanto moderna quanto a suo modo alienante, e del commento
musicale, pensato -non senza divertimento- come una sorta di "destino
che bussa alla porta". Marianna Cappi
GENERE: Drammatico ANNO: 2014 REGIA: Andrey Zvyagintsev SCENEGGIATURA: Oleg Negin, Andrey Zvyagintsev ATTORI: Alexey Serebryakov, Roman Madyanov, Yelena Lyadova, Vladimir Vdovichenkov FOTOGRAFIA: Mikhail Krichman PAESE: Russia DURATA: 140 Min
Trama
Kolia vive in una remota località rurale nel nord della
Russia, vicino al mare. In quel piccolo paese un sindaco prepotente e
corrotto ha deciso di volere per sè le terre di Kolia e cerca quindi di
comprarle. Ex-militare e uomo dal temperamento violento e coriaceo,
Kolia non solo non accetta ma si scaglia con violenza in una causa
legale per mettere in mutande il sindaco stesso. Ad aiutarlo c'è un
amico, avvocato di Mosca, con lui sotto le armi e molto determinato nel
fermare quest'abuso. Recensione
Viene dritta dal libro di Giobbe questa parabola umana di disperazione
ma è asciugata completamente da qualsiasi forma di speranza o fiducia in
Dio (e figuriamoci nella Chiesa!). I disastri nella vita del
protagonista infatti si susseguono uno dopo l'altro ma non è tanto la
volontà di Satana a metterlo alla prova, quanto più prosaicamente
l'accanimento del sindaco cioè della forma minore di potere statale che
si possa incontrare.
Dividendo con molta cura il film in due parti, una prima iniettata di
pesanti dosi di ironia contro tutti (il popolo russo, le abitudini
malsane legate al bere, la propria storia politica...) e una seconda in
cui prende piede sempre di più il destino di sofferenza del
protagonista, Zvyagintsev riesce a costruire un mondo al limite
dell'umano in cui paesaggi desolati svelano con sempre maggiore
decisione la totale solitudine umana. Quelle lande che Il ritorno aveva esplorato attraverso il viaggio qui appaiono statiche, immobili, ferme e proprio per questo agghiaccianti.
Tra relitti di un'altra epoca (case distrutte, imbarcazioni
sventrate...) e relitti di esseri viventi (un gigantesco scheletro di
Balena che non può non far pensare al Leviatano del titolo) si muovono
uomini che lentamente perdono tutto ad opera proprio di quello stato del
quale dovrebbero essere parte fondante, che dovrebbe garantire le loro
libertà nella visione dell'altro Leviatano, quello di Hobbes. È infatti
con un certo rigore e una chiarezza espositiva che non lascia dubbi che
Zvyagintsev raduna intorno ad un tavolo i tre poteri (legislativo,
esecutivo e giudiziario) nel momento in cui il sindaco pianifica il suo
contrattacco. Didascalicamente mette lo stato nella forma più alta (c'è
una geniale preponderanza nella fotografia della classica foto di Putin
sul muro dell'ufficio del sindaco) a tramare, a braccetto con il potere
ecclesiastico.
Con equilibrismo invidiabile Leviathan riesce in questo modo a
non dare mai l'impressione di accanirsi sui protagonisti ma semmai di
condurli in un percorso di sofferenza imputabile ai personaggi e non al
sadismo dell'autore. Nel clima desolato in cui è immersa la storia
l'impressione è che quella sia l'unica possibile strada per tutti coloro
i quali decidono di alzare la testa.
A chiudere la parabola c'è un finale di alto valore simbolico (specie se
raffrontato a quello con cui nella Bibbia si chiudono le peripezie di
Giobbe, cioè con la restituzione delle sue fortune raddoppiate) che fa
piazza pulita di qualsiasi similitudine biblica e dimostra come il film
abbia usato una parabola tra le più conosciute dall'uomo per svelare la
mancanza di un senso superiore nelle vite individuali. La chiesa non è
un conforto e in nessuno degli incredibili paesaggi che costellano tutto
il film sembra di intuire una presenza superiore che regoli tutto, solo
il silenzio del vento e il vuoto delle anime. Gabriele Niola
GENERE: Drammatico ANNO: 1963 REGIA: Francesco Rosi SCENEGGIATURA: Francesco Rosi, Raffaele La Capria, Enzo Provenzale, Enzo Forcella ATTORI: Rod Steiger, Salvo Randone, Guido Alberti, Angelo D'Alessandro, Carlo Fermariello, Marcello Cannavale, Alberto Canocchia, Gaetano Grimaldi Filioli, Terenzio Cordova,
PAESE: Italia DURATA: 105 Min
Trama
Napoli, primi Anni Sessanta. Crolla un palazzo a causa di un cantiere
limitrofo di proprietà di un certo Nottola, speculatore edilizio
appoggiato dalla maggioranza che guida l'amministrazione della città.
Viene aperta una commissione d'inchiesta dalla quale emerge che le
pratiche per la concessione sono state corrette dal punto di vista
formale. Nottola è però diventato 'scomodo' e non è possibile
garantirgli il posto da assessore che egli pretende in seguito alle
ormai imminenti elezioni.
Recensione
Ci sono film, anche di valore, che con il passare degli anni perdono la
presa che ebbero al momento della loro uscita e restano lì a farsi
ammirare come un prezioso utensile del passato di cui riconosciamo la
perfezione ma che può solo restare chiuso in una teca. Altri invece (e
il film di Rosi è fra questi) che invece conservano una loro
inattaccabile attualità. Verrebbe da dire: purtroppo. Purtroppo perché
quei problemi, quel malcostume, quel modo di intendere l'amministrazione
della cosa pubblica perdurano. È sicuramente anche questo uno dei
motivi della tenuta di Le mani sulla città ma quello che lo distacca dalla cronaca politica è lo stile narrativo. Rosi
non fa un 'film di denuncia', va oltre. Sceglie un taglio da "cinema
verité" quando riprende le sedute del Consiglio comunale offrendoci dei
totali di un'aula in cui ci si prepara a una lotta di tutti contro
tutti. Da questo magma fa emergere delle figure che sono rappresentative
di posizioni e di interessi diversi che finiscono con il ruotare
attorno a Nottola (interpretato da un Rod Steiger che domina
l'inquadratura). Sarebbe facile definire 'profetico' un film in cui si
agitano 'mani pulite' o in cui il conflitto di interessi diviene tanto
palese quanto socialmente metabolizzato. Le mani sulla città è
qualcosa di più e di diverso. È un film che va alle radici di uno dei
cancri che hanno corroso e continuano a corrodere la nostra società e ne
mette spietatamente in luce le metastasi. Divenendo un paradigma (anche
se non del tutto compreso, al di là delle polemiche sul suo contenuto,
al momento dell'uscita). Tanto che anche il cinema successivo gli ha
reso omaggio in più occasioni. Due esempi per tutti. La voga da fermo di
Nanni Moretti, protagonista de La seconda volta di Mimmo Calopresti, che richiama l'entrata in scena di Maglione e il politico non vedente in Baarìa che, dinanzi a un plastico di un nuovo complesso edilizio, mette, letteralmente, 'le mani sulla città'. Giancarlo Zappoli
GENERE: Animazione
ANNO: 2015
REGIA: Pete Docter
SCENEGGIATURA: Pete Docter, Meg LeFauve, Josh Cooley
PRODUTTORE: Disney - Pixar
PAESE: USA
DURATA: 94 Min
Trama
Crescere può essere faticoso e così succede anche a Riley, che viene sradicata dalla sua vita nel Midwest per seguire il padre, trasferito per lavoro a San Francisco. Come tutti noi Riley è guidata dalle sue emozioni: Gioia, Paura, Collera, Disgusto e Tristezza. Le emozioni vivono nel centro di controllo che si trova all'interno della sua mente e da lì la guidano nella sua vita quotidiana. Mentre Riley e le sue emozioni cercano di adattarsi alla nuova vita a San Francisco, il centro di controllo è in subbuglio. Gioia, l'emozione principale di Riley, cerca di vedere il lato positivo delle cose ma le altre emozioni non sono d'accordo su come affrontare la vita in una nuova città, in una nuova casa e in una nuova scuola.
Recensione
«Inside out», non a caso definito «uno dei più bei titoli della Pixar» dal maggiore esperto italiano d'animazione Marcello Garofalo, è un capolavoro di ridotte quanto armoniche proporzioni, in realtà assai complesso, ma godibile a livello di bambino e adulto nonché basato su un'idea tanto forte e ardita da essere capace di sorprendere il geniale team degli autori allo stesso modo e nello stesso tempo in cui sorprenderà milioni di spettatori. In particolare Pete Docter, consolidato talento della factory di John Lasseter, si è ispirato per il suo esordio registico al passaggio tra infanzia e adolescenza della figlia, riuscendo nell'affatto scontata impresa di ambientare la trama pressoché interamente nella testa dell'undicenne Riley in procinto di cadere in balia dell'instabilità umorale connaturata all'età difficile. Se le emozioni restano le fondamenta del grattacielo cinematografico hollywoodiano, è in fondo logico che alle stesse vengano una buona volta consegnati ruoli in qualche modo realistici (...) un universo autonomo, caustico e un pizzico moralistico, imperniato sul quel sofisticato blend avventuroso/fantastico che da Alice e le sue meraviglie discende fino a Disney e Disneyland, il cinema musical, horror e thrilling, l'innovatore Spielberg e naturalmente «Toy Story» capostipite della casa fondata nell'85 da Lasseter. Sfidando infine l'acribia degli esperti del ramo, anche l'animazione, i colori e il design ci sembrano all'altezza della posta in palio, di fatto assai delicata perché stavolta a interagire con l'eroina Pixar sono chiamati personaggi dalla struttura per cause mutevole, imprevedibile e astratta. (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 17 settembre 2015)
GENERE: Azione, Drammatico
ANNO: 2015
REGIA: Scott Cooper
SCENEGGIATURA: Scott Cooper
ATTORI: Johnny Depp, Joel Edgerton, Sienna Miller, Benedict Cumberbatch, Dakota Johnson, Rory Cochrane, Kevin Bacon, Adam Scott, Corey Stoll, Peter Sarsgaard, Jesse Plemons, Julianne Nicholson, Jeremy Strong
FOTOGRAFIA: Masanobu Takayanagi
PAESE: USA
DURATA: 122 Min
Trama
Boston (1970), l'agente dell'FBI John Connolly (Edgerton) persuade il
gangster irlandese James "Whitey"Bulger (Depp) a collaborare con l'FBI
per eliminare un nemico in comune: la mafia italiana. Il dramma racconta
la vera storia di questa alleanza che permise a "Whitey" di eludere
l'applicazione della legge, consolidare il potere, e diventare uno dei
gangster più spietati e potenti nella storia Boston.
GENERE: Drammatico, Sentimentale, Storico
ANNO: 2014
REGIA: Alan Rickman
SCENEGGIATURA: Alison Deegan
ATTORI: Kate Winslet, Alan Rickman, Matthias Schoenaerts, Helen McCrory, Stanley Tucci, Jennifer Ehle, Danny Webb, Phyllida Law, Steven Waddington, Adrian Scarborough, Adam James, Henry Garrett, Cathy Belton
FOTOGRAFIA: Ellen Kuras
PAESE: Gran Bretagna
DURATA: 112 Min
Trama
Anno 1682. Sabine De Barra (Kate Winslet), donna volitiva e talentuosa,
lavora come paesaggista nei giardini e nelle campagne francesi. Finché
un giorno riceve un invito inaspettato: Sabine è in lizza per
l'assegnazione di un incarico alla corte di Luigi XIV (Alan Rickman).
Se, al primo incontro, l'artista della corte del Re Sole André Le Notre
(Matthias Schoenaerts) appare disturbato e indispettito dall'occhio
attento di Sabine e dalla sua lungimirante natura, alla fine sceglie
proprio lei per realizzare uno dei giardini principali del nuovo Palazzo
di Versailles. Malgrado - e forse proprio grazie - al poco tempo a
disposizione, il valore della ricerca artistica individuale di Sabine,
del suo "little chaos" sarà presto riconosciuto anche da Le Notre.
DATA USCITA: 12 settembre 1964 GENERE: Western ANNO: 1964 REGIA: Sergio Leone ATTORI: Clint Eastwood, Marianne Koch, Gian Maria Volonté, Wolfgang Lukschy, Sieghardt Rupp, Joseph Egger, José Calvo, Margarita Lozano, Daniel Martin, Benito Stefanelli, Bruno Carotenuto, Aldo Sambrell, Mario Brega, Antonio Prieto, José Orjas, Fredy Arco, Raf Baldassarre, Antonio Molino Rojo PAESE: Germania, Spagna, Italia DURATA: 100 Min
Trama
Pistolero solitario, Joe arriva a San Miguel, cittadina al confine tra
Stati Uniti e Messico divisa dalla lotta per il monopolio di due
famiglie, i Rojo e i Baxter, che commerciano rispettivamente in alcol e
in armi. Fingendo di vendersi ai primi, Joe fa in realtà il doppio gioco
con lo scopo di mettere gli uni contro gli altri e trarre profitto
dalla reciproca eliminazione delle forze antagoniste. Scoperto
l'inganno, i Rojo torturano Joe che, salvatosi in extremis, sferrerà
l'ultimo colpo in uno spettacolare duello.
Recensione
Straordinario successo al botteghino di un titolo che inaugurerà la fruttuosa stagione del cosiddetto "spaghetti western", Per un pugno di dollari costituisce la prima astutissima mossa di quella "trilogia del dollaro" che, insieme a Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto, il cattivo,
consegnerà il cinema di Sergio Leone alla storia del cinema. Per certi
versi inferiore ai due successivi movimenti, più compositi e articolati,
rappresenta una lezione insostituibile per quella rappresentazione
grafica della violenza che sarà assorbita da molti cineasti attivi tra i
Sessanta e i Settanta. Differentemente dal western classico, il tema
della conquista della frontiera, qui, lascia il passo a una "dimensione
più privata", a rondò estremamente fisici il cui motore primo sembra
essere quello della sete di vendetta. Da un soggetto fortemente ispirato
a La sfida del samurai di Akira Kurosawa,
che fece causa e fu risarcito con i diritti esclusivi di distribuzione
in Estremo Oriente, Leone mette a punto, di fatto, un nuovo linguaggio
in cui la fanno da padrone nichilismo e pessimismo, raggelante ironia e
una generale brutalità a livello visivo, ritmico, recitativo, è il caso
della bidimensionalità di ogni personaggio.
Imitatissimo e inimitabile, Per un pugno di dollari è un film
spartiacque non solo per il cinema italiano che nasconde in sé più di
quanto mostri ad una sommaria visione: «in esso confluiscono liberamente
richiami all'Iliade e all'Odissea, all'Arlecchino servitore di due
padroni di Goldoni, a Shakespeare (del resto il film di Kurosawa rilegge
Red Harvest di Dashiell Hammett, punto d'incontro ideale tra
letteratura noir americana e tragedia elisabettiana...)» (Stefano Della
Casa, Cinema popolare italiano del dopoguerra in Storia del Cinema
Mondiale vol. VII, Einaudi, p. 805).
Nell'ottica di un sfruttamento commerciale internazionale, i titoli di
testa celano dietro a pseudonimi anglofoni i realizzatori: Leone diventa
Bob Robertson (in omaggio al padre regista che si firmava Roberto
Roberti), tra gli altri, il direttore della fotografia Massimo Dallamano
è Jack Dalmas e Gian Maria Volonté appare come John Wells.
All'intensità della visione contribuisce non poco il lavoro svolto da
Ennio Morricone (alias Don Savio), alla prima collaborazione con il
regista, autore di una partitura resa indimenticabile anche dal fischio
di Alessandro Alessandroni. Girato in Almeria. Marco Chiani
GENERE: Commedia, Drammatico ANNO: 2015 REGIA: Maria Sole Tognazzi SCENEGGIATURA: Maria Sole Tognazzi, Francesca Marciano, Ivan Cotroneo ATTORI: Margherita Buy, Sabrina Ferilli, Fausto Maria Sciarappa, Domenico Diele, Ennio Fantastichini, Alessia Barela, Massimiliano Gallo, Anna Bellato, Roberta Fiorentini PAESE: Italia DURATA: 97 Min
Trama
Marina e Federica sono una coppia stabile che convive da 5 anni. Marina è
un'ex attrice e un'imprenditrice di successo che ha sempre saputo di
essere lesbica, ma che per esigenze di lavoro ha aspettato qualche tempo
a fare outing. Federica è architetto, è stata sposata, ha un figlio
ormai adulto, e dopo il divorzio si è innamorata di Marina, la sua prima
relazione omosessuale. Ma non si considera lesbica e non gradisce che
la sua convivenza diventi di dominio pubblico. Quando Federica si
imbatte in una figura del proprio passato il rapporto fra le due donne
si incrina e vengono alla luce tutte le loro fragilità.
Recensione
Maria Sole Tognazzi si cimenta ancora una volta con quelle figure
femminili che popolano la realtà italiana contemporanea ma sembrano
essere bandite dal nostro cinema: donne complesse, contraddittorie, non
riducibili a un ruolo tradizionale ma in cerca di una propria identità
da inventarsi ogni giorno, scevra da compromessi e aspettative. Anche Io e lei
è privo di moralismi e prese di posizione aprioristiche e sceglie di
raccontare una storia d'amore che solo incidentalmente ha luogo fra
persone appartenenti allo stesso sesso, riproponendo dinamiche di coppia
universalmente riconoscibili. L'irrequietezza di Federica, donna adulta
assai meno risolta di Marina, è un modo di non accettare fino in fondo
la propria natura profondamente anticonvenzionale, che va ben al di là
delle scelte sessuali. Per contro Marina rinuncia, per amore, a
pretendere da Federica quella coerenza che a lei è costata non poca
fatica.
Seguendo l'esempio della urban comedy d'oltreoceano (alla Nora Ephron o alla Woody Allen, per intenderci) e tenendo come faro l'equilibro fra autorialità e appeal commerciale di I ragazzi stanno bene, Io e lei
racconta la quotidianità di una coppia omosessuale senza cedere agli
stereotipi (con la possibile eccezione del cameriere filippino),
esplorando la complessità degli equilibri fra persone che si amano ma
che non per questo rinunciano alla propria unicità. La sceneggiatura
(della regista insieme a Francesca Marciano e Ivan Cotroneo)
è raffinata e credibile, si declina su dimensioni socioculturali
diverse (benché dia più spazio all'ambiente altoborghese) e mantiene un
tono divertito anche nei momenti dolorosi, un sottotesto dolente anche
nei momenti comici.
Il cast corale funziona in modo magistrale e Margherita Buy mette a
frutto la sua intrinseca vaghezza per rappresentare i dubbi esistenziali
di Federica. Ma Io e lei appartiene a Sabrina Ferilli,
irresistibile nei panni di Marina, una donna completa che non rinuncia
alle proprie radici ma che ha voluto diventare la donna che sapeva da
sempre di essere. Non c'è saccenza nella sua interpretazione, né facili
concessioni alla macchietta: non solo quella della lesbica "maschile",
ma anche quella dell'ex attrice coatta, o della donna manager
carrierista. La sua Marina è, semplicemente, una persona reale, piena di
tenerezza e ironia, di passione e curiosità, e non permette a nessuno
di dirle chi è, o chi deve amare.
GENERE: Commedia ANNO: 2015 REGIA: Fariborz Kamkari SCENEGGIATURA: Antonio Leotti, Fariborz Kamkari ATTORI: Giuseppe Battiston, Maud Buquet, Mehdi Meskar, Hassani Shapi, Giovanni Martorana, Esther Elisha, Gaston Biwolè, Monica Zuccon, Hafida Kassoui FOTOGRAFIA: Gogò Bianchi PAESE: Italia DURATA: 92 Min
Trama
Una piccola comunità islamica con sede a Venezia deve
fronteggiare una crisi imprevista: il suo luogo di culto è stato
evacuato dalle forze dell'ordine e ha lasciato posto ad un hair stylist
unisex, gestito da una mussulmana turco-francese progressista che tiene
"collettivi femministi". In aiuto alla piccola comunità arriva un
giovanissimo imam di origini afghane cresciuto in Italia: sarà lui a
guidare il nucleo (anche "armato") composto, fra gli altri, da un
veneziano abbandonato dal padre e inseguito dalle autorità e da un curdo
"che non può tornare ma solo e sempre andare".
Recensione
Dopo I fiori di Kirkuk,
il regista e sceneggiatore iraniano di origine curda Fariborz Kamkari
si cimenta con una favola multietnica ambientata in una Venezia lontana
dagli stereotipi turistici, usando luci e colori per illuminare interni
fatiscenti e fast food etnici, il negozio della parrucchiera come le
calli della Serenissima. La colonna sonora, firmata dall'Orchestra di
Piazza Vittorio, fa da ulteriore collante e la lingua italiana è un
esperanto fra stranieri nel Bel Paese (compreso l'unico italiano). Il
ritmo comico non è all'altezza di quello musicale, ma la narrazione è
ricca di grazia e affronta tematiche scottanti, come il trattamento
delle donne da parte degli integralisti islamici, in maniera ironica e
gentile (ma mai condiscendente). Di ottima qualità la fotografia che
vede la bellezza in ogni angolo senza diventare eccessivamente
estetizzante.
Resteremmo comunque nell'ambito della commedia multietnica vagamente
buonista se la parabola del veneziano Vendramin, convertito all'Islam e
rinominato Mustafa, non rendesse le cose più interessanti e meno
politically correct. Il suo smarrimento identitario, dovuto più alla
"protesta contro il sistema capitalistico corrotto", le banche e le
agenzie di riscossione che alla convinzione religiosa, è quello di un
Paese che ha perso i propri punti di riferimento insieme alle proprie
radici, ed esige "rispetto per tutti, senza umiliazioni". Il che,
avverte Kamkari, rischia di condurre ad un epilogo "violento".
GENERE: Commedia, Drammatico ANNO: 1973 REGIA: Federico Fellini SCENEGGIATURA: Federico Fellini, Tonino Guerra ATTORI: Pupella Maggio, Armando Brancia, Magali Noël, Ciccio Ingrassia, Nando Orfei, Luigi Rossi, Gianfilippo Carcano, Gennaro Ombra, Bruno Zanin, Dina Adorni, Domenico Pertica, Francesco Vona, Maria Antonietta Belluzzi, Stefano Proietti, Josiane Tanzilli, Giuseppe Ianigro, Lino Patruno, Bruno Lenzi, Francesco Maselli, Carla Mora, Antonino Faà Di Bruno FOTOGRAFIA: Giuseppe Rotunno MONTAGGIO: Ruggero Mastroianni MUSICHE: Nino Rota PAESE: Francia, Italia DURATA: 125 Min
Amarcord in dialetto romagnolo (il dialetto di Fellini) vuol dire "mi
ricordo", e il regista ricorda gli anni della sua infanzia, gli anni
Trenta, al suo paese.
Passano dunque i miti, i valori, il quotidiano di quel tempo: le parate
fasciste, la scuola (con l'insegnante prosperosa che stuzzica i primi
pensieri), la ragazza "che va con tutti", la prostituta sentimentale, la
visita dell'emiro dalle cento mogli, lo zio perdigiorno che si fa
mantenere, la Mille Miglia, i sogni ad occhi aperti, il papà
antifascista che si fa riempire d'olio di ricino, il paese intero che in
mare, sotto la luna, attende il passaggio del transatlantico Rex.
Fellini nel '76 era ancora in grado di incantare praticamente con
niente, confezionando appunto il "niente" con colori, fantasia e
sensazioni. Si giova dei soliti collaboratori, a cominciare da Nino Rota
sempre importantissimo nell'economia del cinema felliniano. Pino Farinotti