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Visualizzazione dei post da aprile, 2015

Mia madre


ven 1_5 ore 21.15
sab 2_5 ore 21.15
dom 3_5 ore 18.00 e 21.00


GENERE: Drammatico
ANNO: 2015
REGIA: Nanni Moretti
SCENEGGIATURA: Nanni Moretti, Francesco Piccolo, Valia Santella
ATTORI: Margherita Buy, John Turturro, Giulia Lazzarini, Nanni Moretti, Stefano Abbati, Beatrice Mancini, Enrico Ianniello, Anna Bellato, Toni Laudadio, Pietro Ragusa, Tatiana Lepore, Lorenzo Gioielli
PAESE: Italia
DURATA: 106 Min




Trama
Margherita sta girando un film impegnato sulla crisi economica italiana dove si racconta lo scontro tra gli operai di una fabbrica e la nuova proprietà americana che promette tagli e licenziamenti. Oltre a dover gestire la complessità del set corale di un film politico, deve fare i conti con le bizze della star italo-americana che ha scelto per interpretare il ruolo del nuovo proprietario; un attore in crisi, ostaggio della sua maschera di divo, qui esasperata dal provincialismo del cinema italiano.
Margherita è separata, ha una figlia adolescente che frequenta malvolentieri il liceo classico in ossequio alla tradizione famigliare impressa dalla nonna (insegnante di latino e greco), ha un amante, attore nel film impegnato, mollato all'inizio delle riprese, e una vita confusa, solitaria e complicata. La concentrazione, richiesta per girare un film così difficile, tutto spostato verso il lato pubblico e politico, è minacciata dalle istanze del privato e dall'ombra sempre più densa della possibile morte della madre che la costringe a un confronto difficile e doloroso, soprattutto con se stessa e con il fratello Giovanni, un ingegnere posato che si è preso un periodo di aspettativa dal lavoro per accudire la madre malata di cuore, ricoverata con poche speranze in un ospedale della capitale.
 
Recensione
Mia madre è un film profondo e sincero, tanto da essere quasi crudele per il lavoro che compie di scavo ineluttabile e autentico.
Non è il primo film in cui Moretti "mette a nudo" se stesso nel confronto con in suoi alter-ego cinematografici. Lo ha sempre fatto. Ma la natura di questo dialogo ha da qualche tempo assunto una qualità diversa. È come se avesse avuto bisogno di liberarsi della sua stessa maschera per guardarsi in faccia. E non è un caso che questo gesto coincida con il graduale mettersi da parte dell'attore/regista a favore di altri sembianti, figure, personaggi, attori. Moretti ha dovuto non coincidere con la propria immagine per avviare un confronto con se stesso. L'ha iniziato a fare con il Caimano e con Habemus Papam. Ma lì la crisi e le domande (pubbliche e private) venivano assunte da figure "politiche", mentre ora il confronto è con il ruolo del regista nell'esercizio della sua funzione di direzione. Ecco, Moretti non ha cercato scappatoie, vie di fuga, facili "neologismi". È andato diretto al punto.
Ad aumentare la complessità di un film ricco di suggestioni psicoanalitiche e di elementi autobiografici, c'è la scelta di trovare se stessi nel corpo di una donna. Margherita (Buy), alter-ego di Moretti, non si trasforma mai nell'icona dell'Apicella che fu. In questo senso, lui e lei riescono in qualcosa di molto difficile: confondersi l'uno nell'altra, dando vita a un genio complesso e originale.
A parte qualche piccola tentazione, dove è più evidente lo scambio di ruoli, la Margherita del film è una figura autonoma, la cui sensibilità e intelligenza non è eterodiretta. E lo stesso Moretti (che interpreta il fratello Giovanni) vive in uno spazio riservato, metabolizzando l'imminente morte della madre con una riservatezza commovente e laica, lasciando alla sorella il primo piano di una crisi mai esasperata, ma appunto profonda e complessa.
Ma c'è tanto di più in questo film così stratificato, solo in apparenza intimista. Intorno al nucleo di un dolore privato, Moretti con i suoi sceneggiatori e sceneggiatrici erige un edificio fatto di diversi piani, ognuno dei quali sviluppa un discorso, un tema, una riflessione.
Mia madre quindi è anche un film sul cinema, sul rapporto tra realtà e finzione.
La prima scena è uno scontro tra manifestanti operai e poliziotti. Per come è stata girata, prim'ancora di scoprire il film nel film, si intuisce che c'è puzza di "finzione", ma nel senso (potremmo dire tutto italiano) di fasullo: le botte dei poliziotti non sono così realistiche, l'azione dei manifestanti appare improbabile, l'azione è povera... non è solo una sensazione, presto qualcuno grida "stop" e inizia a lamentare la povertà della scena. È Margherita al centro del suo set che inizia a mietere dubbi nei suoi collaboratori, facendosene carico lei stessa. Parlando al direttore della fotografia che aveva posizionato la camera dentro alla mischia riproducendo un senso di realismo brutale e spettacolare, Margherita esprime il suo dubbio etico: "ma tu stai con i poliziotti o con i manifestanti"? Domande che pochi si fanno, ormai, ma che Moretti continua a fare e non è un caso che le sequenze del film nel film, il racconto della protesta degli operai, siano così maldestre, improbabili, finte (Moretti infatti non girerebbe mai un film così).
Ma c'è dell'altro, se volessimo andare a fondo. La dimensione politica e pubblica, la lotta degli operai, la crisi economica così come s'affacciano nel film sembrano aver perso ogni urgenza e necessità. Non interessa a nessuno della sorte degli operai. In questo senso Mia madre è un film che racconta una stanchezza e una inadeguatezza. L'ingegnere Giovanni (interpretato da Moretti) si è messo in aspettativa per poi dare le dimissioni e la regista Margherita gira il suo film politico senza troppa convinzione, come fosse un dovere, con una certa stanchezza e sfiducia verso il mezzo stesso, verso la finzione. Margherita, come il suo divo americano dopo l'ennesima notte di ciak andati male, vuole tornare alla realtà, che si quella tangibile del privato e qualcosa d'altro in via di definizione.
In questo senso il film è di una cupezza esemplare, quasi senza scampo, perché attraverso l'alter-ego, ci dice che il suo autore non riesce più a credere che iquel cinema (il suo? quello italiano? quello di finzione?) sia il modo più efficace per raccontare il presente politico e sociale. Non per questo, sia ben chiaro, bisogna intendere Mia madre come un'opera che si rifugia nell'intimismo e nel privato. Anzi proprio nell'attivare questa dialettica così stringente tra individuo e società, privato e pubblico, personale e politico, attore e regista, uomo e icona... il film s'appresta ad essere un manifesto del nostro tempo complesso e problematico. Dario Zonta

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La famiglia Bélier


sab 25_4 ore 21.15
dom 26_4 ore 18.00 e 21.00

 GENERE: Commedia, Drammatico
ANNO: 2014
REGIA: Eric Lartigau
SCENEGGIATURA: Stanislas Carre' De Malberg
ATTORI: Karin Viard, François Damiens, Eric Elmosnino, Roxane Duran, Louane Emera, Ilian Bergala, Mar Sodupe
FOTOGRAFIA: Romain Winding
MONTAGGIO: Jennifer Augé
MUSICHE: Evgueni Galperine, Sacha Galperine
PAESE: Francia
DURATA: 106 Min



Trama
Paula Bélier ha sedici anni e da altrettanti è interprete e voce della sua famiglia. Perché i Bélier, agricoltori della Normandia, sono sordi. Paula, che intende e parla, è il loro ponte col mondo: il medico, il veterinario, il sindaco e i clienti che al mercato acquistano i formaggi prodotti dalla loro azienda. Paula, divisa tra lavoro e liceo, scopre a scuola di avere una voce per andare lontano. Incoraggiata dal suo professore di musica, si iscrive al concorso canoro indetto da Radio France a Parigi. Indecisa sul da farsi, restare con la sua famiglia o seguire la sua vocazione, Paula cerca in segreto un compromesso impossibile. Ma con un talento esagerato e una famiglia (ir)ragionevole niente è davvero perduto.

Recensione
Campione di incassi in Francia e nella stagione appena passata, La famiglia Bélier è una commedia popolare che aggiorna con note e sorrisi il vecchio tema dell'adolescente alla ricerca di un'identità stabile. Sospeso tra focolare e autonomia, il nuovo film di Éric Lartigau 'riorganizza' una famiglia esuberante intorno a un'età per sua natura fragile e scostante. A incarnarla è il volto pieno e acerbo di Louane Emera, ex concorrente dell'edizione francese di The Voice, che presta voce e immediatezza a un personaggio in cerca di un posto nel mondo. Se comicità e crisi si accomodano tra la rappresentazione genitoriale del futuro filiale e la tensione allo svincolo della prole, i personaggi vivono situazioni esilaranti, annullano lo scarto con l'amore e spiccano il salto verso una condizione nuova. Appoggiato su una sceneggiatura solida, che mescola con perfetta misura umorismo, lacrime, disfunzioni, pregiudizi e canzoni, La famiglia Bélier svolge una storia ben ordita in cui ciascun personaggio gioca la sua parte con effetto e sincerità, senza mai sconfinare nel pathos. Precipitando lo spettatore nel mondo 'smorzato' dei malentendants, Lartigau elude lo sguardo (fastidioso) dei 'normali' sui disabili, mettendo in scena una famiglia che quella difficoltà ha imparato a gestirla, intorno a quella difficoltà è cresciuta e su quella difficoltà si è impratichita, sentendo ogni movimento della vita. La famiglia Bélier non emoziona perché è differente ma al contrario perché è universale, si agita, si rimprovera e fa pace come tutte le famiglie del mondo. Chiusi nella sordità e in una bolla di sicurezza familiare, i Bélier si fanno sentire forte e chiaro attraverso la voce limpida di Paula e attraverso il linguaggio marcato dei segni. Linguaggio che regista e attori dimostrano di saper adottare con sensibilità dentro un film good movie alla francese, che 'canta' Michel Sardou. Celebre chanteur parigino, ammirato dal professore appassionato e coinvolto di Éric Elmosnino, Sardou è il tappeto musicale che 'accompagna' il ritratto di una famiglia in un interno domestico e in un esterno bucolico, lontano dalle città e dentro una Francia atemporale e irriducibile, che alla techno preferisce la chanson française, al formaggio di soia quello a latte crudo, alle hall degli aeroporti le piazze di paese. Per preservare 'quella Francia' i Bélier sono addirittura disposti a scendere politicamente in campo e a battersi 'a gran voce'. In tempi di crisi, la commedia di Lartigau ripara nei valori di cui Paula è in fondo portatrice sana. Perché il suo distacco dalle 'origini' è solo fisico, mai totale e lirico come le parole 'segnate' di Sardou ("Je vole"). Parafrasando la canzone, Paula "non fugge, lei vola" verso spazi e tempi di prova in cui prepararsi alla vita. Dentro una moltitudine di diversità Éric Lartigau pesca quella irresoluta dell'adolescenza e di un'adolescente che deve apprendere un 'linguaggio' nuovo ed evidentemente altro e incoerente rispetto a quello familiare. Ispirato al libro di Véronique Poulain ("Les Mots qu'on ne me dit pas"), La famiglia Bélier è abitato da un cast irresistibile, condotto da François Damiens e Karin Viard, genitori affatto 'sordi' a la maladie d'amour e a quel fiume di note impetuose che cercano una melodia. Una melodia che Paula legittima adesso con la sua voce (e le sue mani). 

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Automata


ven 24_4 (Maratona di Fantascienza) 
ore 21.30

 GENERE: Fantascienza, Thriller
ANNO: 2015
REGIA: Gabe Ibáñez
SCENEGGIATURA: Gabe Ibáñez, Igor Legarreta, Javier Sánchez Donate
ATTORI: Antonio Banderas, Dylan McDermott, Melanie Griffith, Birgitte Hjort Sørensen, Robert Forster, Tim McInnerny, Andy Nyman
PAESE: Bulgaria, Spagna
DURATA: 109 Min





Trama
2044 la Terra sta andando verso la desertificazione e l'umanità lotta per la sopravvivenza in un ambiente divenuto ostile. La razza umana coesiste con i robot, creati per supportare la condizione di una società in declino. L'agente assicurativo Jacq Vaucan (Antonio Banderas), che lavora per una società di robotica, la Roc Robotics Corporation, indaga su androidi difettosi. Durante una delle sue indagini scopre che alcuni robot si sono evoluti, diventando una possibile minaccia per l'umanità.

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Maratona sci-fi 2015





In arrivo al Cinema Marconi una nuova maratona SCI-FI promossa dall'associazione Arte del Sogno!
Il tema è: robot.

Si parte alle 21.30 con il film Autómata, diretto da Gabe Ibáñez con protagonista Antonio Banderas.
2044 la Terra sta andando verso la desertificazione e l'umanità lotta per la sopravvivenza in un ambiente divenuto ostile. La razza umana coesiste con i robot, creati per supportare la condizione di una società in declino. L'agente assicurativo Jacq Vaucan (Antonio Banderas), che lavora per una società di robotica, la Roc Robotics Corporation, indaga su androidi difettosi. Durante una delle sue indagini scopre che alcuni robot si sono evoluti, diventando una possibile minaccia per l'umanità.

Le altre proposte sono... una sorpresa!
Durante gli intervalli sarà offerto un buffet.
Biglietto unico € 8,00 - inizio proiezioni ore 21.30

Le Tre leggi della robotica:
1. Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno.
2. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge.
3. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge.
(Isaac Asimov)

Latin Lover


sab 18_4 ore 21.15
dom 19_4 ore 18.00 e 21.00

 GENERE: Commedia
ANNO: 2015
REGIA: Cristina Comencini
SCENEGGIATURA: Cristina Comencini, Giulia Calenda
ATTORI: Angela Finocchiaro, Virna Lisi, Valeria Bruni Tedeschi, Marisa Paredes, Candela Peña, Francesco Scianna, Jordi Molla, Lluís Homar, Neri Marcorè, Claudio Gioè, Toni Bertorelli, Pihla Viitala, Nadeah Miranda, Cecilia Zingaro
PAESE: Francia, Italia
DURATA: 114 Min




Trama
Nel decennale della morte di Saverio Crispo, divo del cinema italiano, le due vedove e quattro delle cinque figlie, avute da cinque donne diverse, si ritrovano nel paesino pugliese da cui aveva origine il padre per una celebrazione che si trasformerà in una riunione di famiglia. E che famiglia: cinque nazionalità diverse, una manciata di nipotini di cui molti di nome Saverio, rivalità e di alleanze incrociate che durano da sempre e che per l'occasione esplodono come mortaretti, una dietro l'altra.

Recensione

Cristina Comencini compone e scompone il ritratto corale di un'umanità femminile che ruota introno al ricordo di un uomo attingendo al miglior cinema europeo sull'argomento (Almodovar, Ozon, Monicelli, per fare solo tre nomi) ma anche alla sua autobiografia di primogenita di quattro sorelle, tutte figlie del mitico Luigi Comencini. E costruisce un'allegoria non solo sul mondo muliebre ma anche sul cinema, in particolare quello italiano: Latin Lover diventa così (anche) un elogio della grandezza dello schermo e dei suoi volti, nonché del cuore degli uomini e delle donne, quando vuole.
A tenere botta (e aggiungere del proprio) alla sceneggiatura firmata dal duo madre e figlia Cristina Comencini e Giulia Calenda è un cast di attrici in gran forma, con punte di diamante le più anziane: Marisa Paredes, che "butta via" la sua scena madre con la grazia leggera che hanno solo le grandi interpreti, e Virna Lisi (cui è dedicato il film), che condivide la scena madre scritta invece per lei facendo ridere di gusto le sue costar, con la generosità che hanno solo le attrici autentiche.
L'impianto è fortemente teatrale ma i dialoghi hanno il ritmo e la naturalezza del reale, e snocciolano piccole e grandi verità attraverso la sensibilità (e la capacità di contraddizione) femminili. E il doppio registro che fa leggere la storia come metafora cinematografica si snoda lungo tutta la narrazione, facendo da ironico contrappunto all'emotività che tracima dalle interpretazioni del cast, di cui fanno parte anche alcuni uomini presi a prestito (come Paredes) dal cinema almodovariano - Jordi Mollà e Lluís Homar - e tre italiani - Neri Marcorè, Claudio Gioè e Toni Bertorelli - contenti di fare da spalla alle colleghe. Al volto antico e autoironico di Francesco Scianna il compito di interpretare l'uomo dei sogni, facendo esplicito omaggio un po' a Volonté, un po' a Mastroianni e molto, moltissimo a Vittorio Gassman, e attraverso di loro alle stagioni del cinema italiano - la commedia anni Sessanta, l'impegno dei Settanta, gli spaghetti western, gli excursus oltralpe e a Hollywood, persino un immaginario periodo bergmaniano.
Ma Latin Lover appartiene all'impaccio esistenziale di Valeria Bruni Tedeschi, alle nevrosi di Angela Finocchiaro, alla spontaneità latina di Candela Peña, alla naiveté nordica di Pilha Viitala e all'accento yankee di Nadeah Miranda che consente a Comencini di chiudere in musical, senza vergogna. L'intero film si concede il lusso dell'eccesso cinematografico citazionista e smaccatamente emozionale, della celebrazione del lavoro d'attore attraverso movimenti di macchina attentamente pianificati e poi abbandonati all'improvvisazione del momento. Memore del suo Due partite la regista inscena conversazioni da tè fra le signore ben attenta a "tagliare le scene con troppe parole" e a lasciar filtrare la ferocia e il dolore che attraversano i discorsi femminili.
Comencini mette a frutto il suo background altoborghese e la sua conoscenza da insider del cinema ben sapendo che "la colpa è sempre del regista", e fregandosene. E sulle sue donne, soprattutto le meno giovani, punta una luce diretta che ne valorizza le rughe invece di negarne il passato. 

Jimmy's Hall - Una storia d'amore e libertà


ven 17_04 ore 21.15

GENERE: Drammatico
ANNO: 2014
REGIA: Ken Loach
SCENEGGIATURA: Paul Laverty
ATTORI: Barry Ward, Andrew Scott, Simone Kirby, Jim Norton, Brian F. O'Byrne, Aisling Franciosi
FOTOGRAFIA: Robbie Ryan
MUSICHE: George Fenton
PAESE: Francia, Gran Bretagna, Irlanda
DURATA: 106 Min







Trama
Nel 1921, un'Irlanda sull'orlo della guerra civile, Jimmy Gralton aveva costruito nel suo paese di campagna un locale dove si poteva danzare, fare pugilato, imparare il disegno e partecipare ad altre attività culturali. Tacciato di comunismo era stato costretto a lasciare la propria terra per raggiungere gli Stati Uniti. Dieci anni dopo Jimmy vi fa ritorno e sono i giovani a spingerlo a riaprire il locale. Gralton è inizialmente indeciso ma ben presto cede alle richieste. Chi gli era stato ostile in passato torna a contrastarlo.

Recensione

Ken Loach torna nell'Irlanda che aveva messo al centro del suo cinema ne Il vento che accarezza l'erba e lo fa in modo apparentemente inusuale. Perché al centro di questa storia ci sono uomini e donne che difendono quello che un tempo avremmo definito un dancing. La musica che accompagna le dure immagini della Depressione americana potrebbe aprire un film di Woody Allen ma il contesto è e resta quello più amato dal regista inglese: la vita di uomini e donne che cercano nella condivisione di idee e di spazi quel senso della socialità che altri vorrebbero irregimentare per poterlo controllare il più possibile. Quello che Jimmy Granton (attivista socialista realmente esistito) edifica per due volte è di fatto un centro sociale ante litteram in cui si possono condividere saperi ma anche la gioia dello stare insieme. Definire 'peccaminose' le danze che vi si praticano è, per la chiesa locale e per gli esponenti della destra, solo un pretesto per impedire la circolazione di idee ritenute pericolose. Chi frequenta la Pearse-Connolly Hall è spesso anche un buon cristiano che partecipa alla messa domenicale. È proprio questo che va colpito e debellato da quel potere ecclesiastico che però, a differenza dei reazionari più retrivi, è ancora capace di comprendere l'onestà degli intenti dell'avversario. Il film esce in un tempo in cui a Roma siede un pontefice che ha dichiarato di saper ballare la milonga e di non sostenere ovviamente il comunismo ma anche di aver conosciuto tante brave persone che erano comuniste. Jimmy's Hall potrebbe piacergli.

L'ultimo lupo


sab 11_4 ore 21.15
dom 12_4 ore 18.00 e 21.00


GENERE: Avventura, Drammatico
ANNO: 2015
REGIA: Jean-Jacques Annaud
SCENEGGIATURA: Jean-Jacques Annaud, John Collee
ATTORI: Feng Shaofeng, Shawn Dou, Ankhanyam Racchaam, Yin Zhusheng
FOTOGRAFIA: Jean-Marie Dreujou
MUSICHE: James Horner
PAESE: Cina, Francia
DURATA: 121 Min





Trama
Chen Zhen, giovane studente nella Cina della 'rivoluzione culturale', è trasferito in Mongolia da Pechino per educare una comunità di pastori nomadi. In quella terra, piena di una bellezza selvaggia e vertiginosa, è tuttavia Chen Zhen ad apprendere qualcosa sugli uomini e sui lupi, che il governo comunista ha deciso di sterminare. Colpevoli di 'frenare' l'avanzata del progresso della Cina di Mao, i lupi vengono abbattuti da cuccioli o dentro safari crudeli, che alterano l'equilibrio uomo-natura che le tribù mongole avevano conquistato nei secoli. Affascinato dai lupi, Chen ne alleva uno di nascosto, compromettendo a suo modo l'ordine naturale delle cose.

Recensione
Il cinema di Jean-Jacques Annaud ha da sempre due anime: qualche volta si 'diverte' a precipitare i suoi protagonisti dentro una cultura esotica (Bianco e nero a colori, Sette anni in Tibet) e qualche altra a elevare gli animali a protagonisti (L'orso, Due fratelli). Contrariamente al titolo e alle apparenze, L'ultimo lupo appartiene alla prima categoria. Blockbuster à l'ancienne e adattamento del romanzo di Lü Jiamin ("Il totem del lupo"), L'ultimo lupo è una storia cinese, raccontata da un francese, sul tramonto del nomadismo mongolo. 'Raccomandato' dalla sua amante, film censurato in Cina ma il più visto illegalmente in Cina, Annaud è stato ingaggiato dalla China Film Group Corporation per girare in Mongolia un bestseller locale sulla civiltà nomade degli allevatori mongoli e la colonizzazione comunista. Favola spettacolare, dentro un cinema classico e popolare, L'ultimo lupo racconta l'avventura di due allievi-precettori che lasciano Pechino per alfabetizzare le comunità della Mongolia Interna e finiscono invece alfabetizzati. Sedotti da quell'idillio pastorale e da un'arcaicità serena, in cui uomini e animali convivono in armonia, bevono come il latte delle giumente le parole del capo del villaggio, che insegna loro i rudimenti di un equilibrio ecologico fondato su una cosmogonia animista. Il regista francese svolge questa educazione concentrandosi sullo sguardo di Chen Zhen, portatore critico della rivoluzione culturale di Mao.
Nella magnificenza dei paesaggi e sotto lo sguardo delle creature selvagge della steppa, il film cerca e trova il battito barbaro del cuore di Chen Zhen, sorpreso di frequente in primo piano e davanti all'orizzonte come in una vecchia cartolina della propaganda comunista. Cronaca della fine di un mondo e di un modo di vivere, L'ultimo lupo esalta col 3D l'animale del titolo, divinità tutelare e predatore antico. Venerato e temuto dai nomadi mon goli, il lupo condivide la scena con Chen Zhen e la riempie con tutta la sua dignità. Se il vento freddo e pungente della steppa increspa la sua pelliccia e lo coglie in piena corsa, la terza dimensione trova la sua ragione nei piani fissi, che ne afferrano la consumata immobilità e la maestosa monumentalità. Misurando la loro perfetta fotogenia, la regia di Annaud elude esotismo e antropomorfismo, privilegiando un modello di messa in scena in rilievo che rende addirittura palpabile la presenza del lupo, vicino eppure sfuggente. Pioniere di questa tecnologia, nel 1995 aveva girato in Imax 3D Wings of courage, l'autore rileva, dentro un paesaggio irriducibile e sotto il pretesto di studiare i predatori di Chen Zhen, la speranza chimerica di una conciliazione tra onnivori e carnivori, tra un uomo di buona volontà e un animale selvaggio, tra una cultura nomade e una sedentaria, che muore di fame e sogna una terra intorno al lago in cui coltivare i suoi cereali. Dentro il recinto, eretto da Chen Zhen per crescere il suo cucciolo, però qualcosa si perde, una perdita ineluttabile, forse necessaria ma irreparabile. Fuori intanto urlano i lupi, lupi senza pelliccia che rompono un equilibrio ancestrale sparando agli animale e soffocando la volontà di libertà degli uomini. Marzia Gandolfi

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Mommy


ven 10_04 ore 18.00 e 21.15

GENERE: Drammatico
ANNO: 2014
REGIA: Xavier Dolan
SCENEGGIATURA: Xavier Dolan
ATTORI: Anne Dorval, Antoine-Olivier Pilon, Suzanne Clément
FOTOGRAFIA: André Turpin
MONTAGGIO: Xavier Dolan
PAESE: Canada, Francia
DURATA: 140 Min




Trama
Diane è una madre single, una donna dal look aggressivo, ancora piacente ma poco capace di gestire la propria vita. Sboccata e fumantina, ha scarse capacità di autocontrollo e ne subisce le conseguenze. Suo figlio è come lei ma ad un livello patologico, ha una seria malattia mentale che lo rende spesso ingestibile (specie se sotto stress), vittima di impennate di violenza incontrollabili che lo fanno entrare ed uscire da istituti. Nella loro vita, tra un lavoro perso e un improvviso slancio sentimentale, si inserisce Kyle, la nuova vicina balbuziente e remissiva che in loro sembra trovare un inaspettato complemento.

Recensione
C'è spazio per una persona sola nei fotogrammi di Mommy. Letteralmente.
Il formato scelto da Xavier Dolan per il suo nuovo film infatti è più stretto di un 4:3. Inusuale e con un altezza leggermente maggiore della larghezza, costringe a prevedere una persona sola in ogni inquadratura o a strizzarne due per poterle guardare da vicino. Come un letto a una piazza. Attraverso questa visione simile a una gabbia, Dolan racconta di nuovo di un figlio e una madre, cercando di cogliere una complessità inedita nella storia della rappresentazione di questo rapporto al cinema e finendo per creare tre personaggi lontani da qualsiasi paragone o altri esempi già visti, che si presentano come destinati all'infelicità sebbene condannati a provare a sfuggirgli. Intrappolati in un formato claustrofobico, non gli rimane che sognare la libertà e serenità di un irraggiungibile 16:9.
Nonostante infatti un inizio di gran ritmo e divertimento, lentamente i medesimi eccessi che suscitano risate diventano una catena. Le battute e le interazioni non cambiano ma dal ridicolo si passa alla compassione quando da un livello superficiale di osservazione si entra dentro alla famiglia e ciò che ci appariva divertente si trasforma in un inferno. E' solo una delle tante piccole raffinatezze di questo quinto film di Xavier Dolan, sempre caratterizzato dalla volontà di non negarsi il piacere della sottolineatura (i consueti ralenti, il gioco con i formati, l'uso di musiche molto note) in storie che nulla hanno di normale. La grande dote del cineasta ragazzino è di immaginare archi narrativi diversi da quelli cui siamo abituati, storie che cercano il coinvolgimento senza ricorrere al consueto ma anzi stimolando curiosità nuove, e di saper condire tutto ciò con una capacità di generare immagini come pochi altri sanno inventare. Steve che zittisce la madre mettendole una mano sulla bocca e poi bacia il dorso della mano stessa frapposta tra le loro labbra è un momento di inusitata forza, perfetto per chiarire d'un colpo il loro rapporto fatto di soprusi e violenza che alimentano e rendono difficile comunicare amore.
Dolan ha il merito indubbio di cercare le sensazioni forti unito al pregio di trovarle, fa di tutto per strappare lacrime ed è quindi molto difficile non commuoversi di fronte ad un certo pietismo per l'illusoria ricerca di un'impossibile felicità che anima le speranze dei personaggi. Confondere il desiderio di catarsi di un'autore che sa picchiare come un pugile professionista con il bieco arruffianamento del pubblico sarebbe però una prospettiva miope incapace di comprendere il più bel film passato al Festival di Cannes.
Dopo tre film che in un modo o nell'altro mettevano in contrasto madri disamorate con figli bisognosi di comprensione, ora Dolan è passato dall'altra parte della barricata e il risultato ne guadagna. Steve è il meno gestibile dei figli possibili, malato e bisognoso d'affetto è capace di distruggere tutto quel che gli è intorno e sua madre forse è il soggetto meno indicato per curarlo, prendere una parte questa volta è impossibile, perchè ci vorrebbe la migliore delle famiglie per Steve, invece si ritrova una donna incapace a gestire anche se stessa. Da qui Mommy parte verso i lidi meno prevedibili, perchè nella violenza che caratterizza il loro rapporto lentamente emerge una delle forme d'amore più genuine che si possano immaginare, comunicato senza nessuna sottigliezza, solo urlando e passando per clamorose scenate. Mentre il mondo intorno a loro pensa che si odino, lo spettatore lentamente comprende che non è così.
Il salto di qualità però Mommy lo fa non puntando unicamente su un contrasto titanico che da solo basterebbe ad animare il film. Ambientando la storia in un futuro a breve termine (solo un anno in avanti) introduce elementi di fantasia come una legge inesistente che gli consente di piegare gli eventi in maniere altrimenti impossibili (oltre ad affermare una libertà creativa dissetante), in più tra madre e figlio posiziona anche un terzo personaggio che alla lunga si rivela il più interessante: una vicina di casa con problemi psicosomatici di balbuzie e una vita che forse non l'aiuta. Remissiva, specie se confrontata ai due tifoni umani che comincia a frequentare, la Kyla di Suzanne Clement introduce lo spettatore nell'assurda vita della famiglia Deprés ma dopo poco supera lo statuto di "personaggio osservatore" e diventa un terzo polo d'attrazione sentimentale, lasciando entrare un'emotività sommessa da dove nessuno se l'aspetterebbe. Gabriele Niola

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