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Visualizzazione dei post da settembre, 2015

Per amor vostro


giovedì 1_10 ore 21.15
sabato 3_10 ore 21.15
domenica 4_10
ore 18.00 e 21.15

GENERE: Drammatico
ANNO: 2015
REGIA: Giuseppe M. Gaudino
SCENEGGIATURA: Giuseppe M. Gaudino, Isabella Sandri, Lina Sarti
ATTORI: Valeria Golino, Massimiliano Gallo, Adriano Giannini
PRODUZIONE: Buena Onda, Eskimo, Figli del Bronx, Gaudri, Bea Production Company, Minerva Pictures Group, con Rai Cinema
DISTRIBUZIONE: Officine UBU
PAESE: Francia, Italia
DURATA: 110 Min




Trama
Anna è stata una bambina spavalda e coraggiosa. Oggi è una donna che vive nella sua Napoli e che da vent'anni ha smesso di vedere quel che davvero accade nella sua famiglia, preferendo non prendere posizione, sospesa tra Bene e Male. Per amore dei tre figli e della famiglia, ha lasciato che la sua vita si spegnesse, lentamente. Fino a convincersi di essere una "cosa da niente". La sua vita è così grigia che non vede più i colori, benché sul lavoro - fa la "suggeritrice" in uno studio televisivo - sia apprezzata e amata, e questo la riempia di orgoglio. Anna ha doti innate nell'aiutare gli altri, ma non le adopera per se stessa. Non trova mai le parole né l'occasione per darsi aiuto.

Recensione
Giuseppe M. Gaudino realizza con Per amor vostro il suo film più ambizioso perché la 'storia' che racconta si vuole allargare a uno sguardo che coinvolga non solo coloro che agiscono al suo interno ma si applichi alla complessa città in cui si dipana, alla sua storia, alla sua cultura ancestrale. Perché Anna, con le sue incertezze e la sua caparbietà, la sua incommensurabile generosità e il suo bisogno di essere compresa e di avere qualcosa che sia solo per sé è in fondo la summa della coscienza profonda della città che attraversa con il suo passo nervoso e una vita in bianco e nero pronta a colorarsi nei momenti topici in cui la sua anima si sente più fragile.
Anna è Napoli, capace di fingere di non vedere (per quieto vivere) il marciume morale che la circonda e che rischia di sommergerla ma anche capace di serietà, di slanci, di disponibilità al sacrificio e bisognosa di una comprensione difficile da trovare. Gaudino affida alle poderose spalle interpretative di Valeria Golino le innumerevoli sfaccettature di una persona che si fa presente/passato e forse anche futuro e ne viene ripagato quasi che il nome di finzione che le attribuisce volesse, più o meno inconsciamente, far correre il pensiero a una 'grande' del cinema come Anna Magnani. Se la colonna sonora musicale riesce a far confluire in un magma di suoni e di stili (si va dal Quartetto Cetra al "Lascia ch'io pianga" di Handel passando per affabulazioni ritmate in un napoletano quasi da cantastorie) il rapporto tra gli inferi urbani e un cielo che a tratti si fa quasi più ctonio degli inferi stessi, la messa in parallelo della vita quotidiana della protagonista e il mondo 'della' e 'da' soap opera in cui lavora e si innamora suona un po' didascalico. Ma quando si ha a disposizione una 'vera' attrice anche questo ostacolo può essere superato. Giancarlo Zappoli

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Figlio di nessuno


ven
2_10
ore 21.15


GENERE: Drammatico
ANNO: 2014
REGIA: Vuk Ršumović
SCENEGGIATURA: Vuk Ršumović
ATTORI: Denis Muric, Milos Timotijevic, Pavle Cemerikic, Isidora Jankovic
FOTOGRAFIA: Damjan Radovanovic
MUSICHE: Jura Ferina, Pavao Miholjevic
PAESE: Serbia
DURATA: 97 Min







Bosnia, 1988. Un gruppo di cacciatori trova nel bosco un bambino cresciuto in mezzo ai lupi, dei quali ha adottato le sembianze e lo stile di vita: non parla, non cammina, ringhia e morde chiunque lo avvicini. Il bambino, chiamato Haris, viene spedito in un orfanotrofio di Belgrado, dove inizialmente rifiuta ogni contatto e ogni forma di educazione, poi, grazie alla presenza di un assistente sociale e all'amicizia con Zika, un ragazzo più grande, esce gradualmente dallo stato animale per ricongiungersi con la propria natura umana. Ma il percorso di umanizzazione del bambino non è necessariamente evolutivo, né garantisce ad Haris una vita migliore di quella vissuta in mezzo ai lupi.
Il paragone fra No One's Child, opera prima vincitrice del Premio del pubblico alla Settimana della Critica e del premio FIPRESCI alla Mostra del cinema di Venezia, e Il ragazzo selvaggio di Francois Truffaut è immediato e inevitabile. Ma il regista serbo Vuk Ršumovic, basandosi su una storia vera, cala il piccolo protagonista nella contemporaneità, introducendo elementi sociopolitici che fanno un'enorme differenza nello sviluppo della storia, ad esempio l'insorgere dei nazionalismi che sarebbero sfociati nella guerra del 1992 (folgorante il momento in cui Haris scopre di essere bosniaco perché un gruppo di ragazzi serbi lo apostrofa come "sporco mussulmano").
In realtà il paragone necessario è con un altro film di Truffaut, I quattrocento colpi, non solo per lo sguardo desolato del piccolo protagonista, che anche fisicamente assomiglia al giovanissimo Antoine Doinel, ma soprattutto perché la storia è raccontata all'altezza di quello sguardo, inizialmente orizzontale, poiché Haris non ha ancora conquistato la posizione eretta, e via via sempre più verticale, ma di una verticalità distorta e fuorviante, perché distorto e fuorviante è il mondo che circonda il ragazzino. Un mondo fatto di gambe senza volto (l'inquadratura delle due ragazzine dal fondo di un sottoscala è un riferimento al Truffaut di Finalmente domenica!, che a sua volta citava L'uomo che amava le donne) e di voci senza corpo, come nella scena del colloquio con la psicologa de I quattrocento colpi.
Ršumovic riesce tuttavia a ritagliarsi un'originalità di stile grazie ad una fotografia nitida ed essenziale priva di qualsiasi sentimentalismo o di qualsiasi afflato romantico "alla Truffaut", e incastona il percorso di Haris in ambienti che paiono quinte teatrali: le stanze dell'orfanotrofio, i vicoli di una Belgrado sordida e allucinata, il cortile degradato e pieno di insidie. La cinepresa di Ršumovic racconta l'assurdità dell'odissea di Haris come coincidente con l'assurdità del conflitto nell'ex Jugoslavia, la cui devastazione identitaria rispecchia e amplifica quella del "ragazzo selvaggio". E tuttavia trova la bellezza anche nello squallore dell'esistenza del bambino perché ne è affamata quanto lui. Malgrado No One's Child sia il film di Haris (e dello straordinario Denis Muric che lo interpreta), ogni personaggio di contorno ha il suo momento, e la scelta degli attori è straordinaria: profondamente attraenti senza esserlo in modo "cinematografico", perfettamente "in parte" nella recitazione essenziale richiesta dalla storia.
No One's Child è un debutto cinematografico di grande maturità e purezza etica ed estetica, un racconto in tre atti quasi muto che utilizza la luce e l'ombra come potenti strumenti narrativi, una struttura perfettamente circolare che inizia e finisce con uno sparo e si articola intorno a un paio di scarpe: quelle che Haris rifiuta, accetta, scambia e di nuovo rifiuta, come maschere sempre inadeguate a definire il suo ruolo nel mondo.

Dove eravamo rimasti

News: il Cinema Marconi da questa stagione è aperto anche il giovedì!
giovedì 24_09 ore 21.15
venerdì 25_09 ore 21.15
sabato 26_09 ore 21.15
domenica 27_09
ore 18.00 e 21.15


 GENERE: Drammatico
ANNO: 2015
REGIA: Jonathan Demme
SCENEGGIATURA: Diablo Cody
ATTORI: Meryl Streep, Kevin Kline, Mamie Gummer, Rick Springfield, Sebastian Stan, Audra McDonald, Doris McCarthy, Charlotte Rae
FOTOGRAFIA: Declan Quinn
PAESE: USA
DURATA: 101 Min




Trama
Rick è la front woman di una band rock che entusiasma un non foltissimo pubblico di appassionati. Non è più giovanissima e ha lasciato da molti anni il marito e i tre figli per inseguire il suo sogno musicale. La brusca rottura del matrimonio della figlia Julie la spinge a 'tornare a casa'cioè a raggiungere l'ex marito che vive con la nuova compagna in una lussuosa villa. L'incontro con l'ormai cresciuta prole avrà luci ed ombre.

Recensione
Sicuramente Jonathan Demme sarà rimasto affascinato dallo script di Diablo Cody (ricordate Juno?) per la possibilità che gli forniva di tornare a tradurre la musica in immagini. Lo aveva fatto in passato con i Talking Head e con Neil Young perché non riprovarci ancora mutando però il livello di lettura passando dal documentario alla fiction? Da grande regista qual è deve avere anche intuito immediatamente che la storia di base era di quelle già viste innumerevoli volte sul grande schermo: un genitore che ha lasciato la famiglia ed è costretto dalle circostanze a farvi ritorno portandosi dietro tutte i propri buoni diritti ma anche una montagna di sensi di colpa. Ma Demme sapeva che anche i copioni più deja vu, se hanno dentro un fondo di verità, possono funzionare se affidati a un'interprete che sappia fare emergere quella verità. L'ha trovata in Meryl Streep e anche qui si potrebbe cadere nel risaputo perché si sono sprecati fiumi di parole nel corso dei decenni per dire quanto è brava Meryl Streep e si finisce con il doverlo ripetere per l'ennesima volta. Perché la Streep che suona e canta davvero non si limita a questo tipo di performance passando dal country dell'altmaniano Radio America al rock carico di energia della sua band, ma fa molto di più. Offre a questa madre tutto il carico degli anni e dei sentimenti provati, le regala sensi di colpa ma anche di orgoglio, insinua nei suoi gesti quella che altri pensano sia volgarità e che per lei non è un atteggiamento ma un modo di essere. Demme le consente anche di lavorare su un piano che mescola finzione e realtà ponendola di fronte al tormentato personaggio di Julie che è interpretato da Mamie Gummer che è figlia di Meryl e ha seguito le sue orme.
In tutto questo Demme non dimentica la propria dimensione 'politica' e non si lascia alle spalle film come Philadelphia o documentari come The Agronomist o Man from Plains. Porta così sullo schermo una Rick che ha votato due volte per George W. Bush, che non pronuncia neppure il nome di Obama e che di fronte al figlio gay non ha un atteggiamento iniziale di comprensione. Rick sta dall'altra parte rispetto a ciò che pensa Demme ma questo non impedisce di fare emergere passo dopo passo, ruga dopo ruga, un senso di umanità profonda in cui errori e capacità di riconoscerli finiscono con il coesistere. Perché come diceva Giorgio Gaber (per rimanere sempre in ambito musicale) "L'uomo è quasi sempre meglio rispetto alla propria ideologia". Giancarlo Zappoli 

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Città di carta


venerdì 18_09 ore 21.15
sabato 19_09 ore 21.15
domenica 20_09
ore 18.00 e 21.15

GENERE: Sentimentale
ANNO: 2015
REGIA: Jake Schreier
SCENEGGIATURA: Scott Neustadter, Michael H. Weber
ATTORI: Cara Delevingne, Nat Wolff, Halston Sage, Cara Buono, Austin Abrams, Meg Crosbie, Caitlin Carver
FOTOGRAFIA: David Lanzenberg
MONTAGGIO: Jacob Craycroft
PAESE: USA
DURATA: 109 Min



Trama
Tratto dal romanzo bestseller di John Green ("Colpa delle Stelle"), Città di carta è la storia di Quentin e della sua enigmatica vicina di casa Margo, amante del mistero al punto da diventarlo lei stessa. Dopo averlo trascinato in un'unica notte di avventure in giro per la città, Margo scompare improvvisamente lasciando degli indizi che Quentin dovrà decifrare. La ricerca porterà Quentin e i suoi amici attraverso un'avventura che sarà al tempo stesso commovente e divertente. Infine, sulle tracce di Margo, Quentin troverà la consapevolezza del significato di vera amicizia e vero amore. 

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Evento speciale: Amy The Girl Behind the Name


Il Cinema Marconi riapre dopo la pausa estiva!
mercoledì 16_09 ore 18.00 e 21.15
giovedì 17_09 ore 18.00 e 21.15


GENERE: Biografico, Documentario, Musicale
ANNO: 2015
REGIA: Asif Kapadia
ATTORI: Amy Winehouse
PRODUZIONE: Krishwerkz Entertainment, Playmaker Films, Universal Music
PAESE: Gran Bretagna
DURATA: 90 Min

BIGLIETTO: Intero € 12. Ridotto € 10 (per prenotati alla mail cinema.marconi@gmail.com). Aperte le prenotazioni.






Trama
C'era una volta Amy Winehouse, star della musica, jazz singer del calibro di Ella Fitzgerald e Billie Holiday, morta di arresto cardiaco a 27 anni, nella sua casa di Londra, provata nel corpo minuto dall'eccesso di alcol e droga, forse proprio mentre ne stava venendo fuori. E c'era una volta Amy, prima del cognome, prima del successo, prima del dimagrimento eccessivo, della vertigine romantica e della perdita di sé, appunto.

Recensione
Asif Kapadia va indietro nel tempo a recuperare la ragazzina in carne che fa le boccacce nei video fatti in casa e non ha ancora avuto l'idea di cotonarsi i capelli, tanto meno di cantare per professione. La segue, attraverso il materiale di repertorio privatissimo, amicale, mentre scopre il suo dono e il piacere di cantare per un pubblico raccolto, a cui raccontare le proprie esperienze in musica. Quel piacere resterà sempre tale ma diverrà una chimera, un sogno impossibile, man mano che le platee dei suoi concerti si allargano a dismisura, le copie vendute non si contano più, la macchina della finanza gira ad alti livelli e pretende il prezzo del carburante.
Il documentario procede in ordine cronologico, apparentemente non dissimile da un lungo servizio televisivo, di quelli che ricapitolano le parabole biografiche delle glorie del rock, finendo magari per spruzzare del mistero sulla morte, ribadendo l'enormità del talento sprecato, di chiunque si stia parlando. Ma il film di Kapadia non cerca il mistero né ribadisce alcunché. Lascia che sia un mostro sacro come Tony Bennet a spendere le lodi più alte di Amy Winehouse, le uniche, in fondo, e le sole di cui lei sarebbe stata orgogliosa. E non è certo la delicatezza che lo guida: al contrario, il film non risparmia nulla al suo soggetto, nemmeno la fotografia del cadavere, però non lascia il contatto coi fatti, rifiuta i voli pindarici, dà voce all'ipotesi psicologica solo laddove è l'interessata stessa a formularla ("I can't help but demonstrate my Freudian fate ..."). Del resto, la sciacallaggine del padre e del fidanzato, l'influenza positiva ma troppo debole delle amiche e del primo manager, e l'assenza della madre, parlano da sole.
Non è un film artisticamente rilevante, Amy, non è il primo dietro le quinte della sua storia né sarà l'ultimo, però ha alcune qualità speciali. Pur mostrando ciò che la protagonista non ha scelto di mostrare, non dà l'impressione di violare una soglia dolente, come accade in Cobain: Montage of Heck, il recente ritratto dell'autocombustione di Kurt Cobain. Perché Amy Winehouse era probabilmente superiore alla propria immagine struccata e alle inquadrature impietose; la sua debolezza era un'altra, era la coppia, e lì dentro Kapadia non scava, non sgomita, ancora una volta è Blake Fielder-Civil a dare il peggio di sé, e a farlo da solo. L'altro motivo d'interesse sta nell'accento posto sulle parole delle canzoni, associate al suo vissuto, stavolta proprio come nel film di Brett Morgen, con un effetto ancora più trasparente, perché le sue canzoni parlavano ancora più chiaro, con la loro grafia giovane ma il vocabolario scelto.
Sarà anche impietoso, ma il ritratto che esce da Amy è quello di una piccola grande donna, con un dono unico, a cui la vita avrebbe insegnato a vivere, per dirla con Tony Bennet, se solo il suo fisico gliene avesse lasciato il tempo. Marianna Cappi

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