Aspettando "Lo spazio bianco"

Francesca Comencini presenta "Lo spazio bianco"



Lo spazio bianco di Francesca Comencini racconta con sensibilità l'attesa di una donna accanto alla figlia nata prematuramente
È un tempo spezzato, senza più direzione e senso, quello in cui rischia di perdersi la protagonista di Lo spazio bianco (Italia, 2009, 96'). Tratto da un libro di Valeria Parrella, il film di Francesca Comencini e della cosceneggiatrice Federica Pontremoli racconta la storia di una maternità. Anzi, racconta la storia di due maternità, una anche di sangue e di carne, e l'altra solo di testa e di cuore. Non più giovanissima, ogni sera Maria (Margherita Buy) insegna italiano a un piccolo gruppo di uomini e donne adulti. È un mestiere minore, il suo. Almeno, così lo valuterebbe l'immaginario dominante e vincente. Tra i suoi allievi ci sono immigrati, disoccupati, in genere scarti, residui di una società crudele e distratta. Questa è la sua prima maternità, questa sua "cura" generosa e silenziosa di un'umanità altrimenti abbandonata. Maria è non solo insegnante, ma anche madre dei suoi allievi. Li accompagna verso un traguardo, la licenza media, che per loro può essere l'inizio di una vita nuova.
In questa sua maternità di testa e di cuore, appunto, Maria è sola. Sera dopo sera, la piccola classe viene spostata in giro per Napoli: ora in un'aula provvisoriamente "rubata" a una scuola diurna, ora in qualche palazzo pubblico inutilmente colmo di antichi splendori, ora in uno squallido e anonimo deposito perduto nel degrado urbano. Lo stato non li vuole,né li vuole la città,questi scarti e residui d'esseri umani. Anche lei, Maria, sembra vivere una vita ai margini della vita. È sola, forse dopo un amore finito. Di sicuro, la felicità che le resta non va molto oltre la platea di un cinema nel quale passa i suoi pomeriggi. Questo è il suo tempo, dunque: un susseguirsi ordinato e grigio di giorni e di ore, in un presente che non lascia spazio all'imprevisto. Poi, proprio al cinema, incontra Pietro (Guido Caprino). Forse è un inizio, qualcosa che può muovere la sua vita verso il futuro. E quando resta incinta quel futuro sembra a portata di mano. In fondo, non conta che Pietro fugga via, spaventato dalla responsabilità. Conta che un figlio (una figlia) stia per entrare nella sua solitudine, aprendola e cancellandone il grigio. Non si direbbe una storia "straordinaria", questa raccontata da Lo spazio bianco, se non per il distacco inusuale di Maria dalla volgarità quotidiana e dalla quotidiana indifferenza. Per il resto, sembra una normale vicenda di biografie che s'avvicinano e poi s'allontanano, ognuna dando la misura di sé, del proprio coraggio o della propria paura. Invece, di colpo, nella sua storia entra l'eccezione, una delle più terribili. La figlia che le sta nascendo le viene strappata via da qualcosa che le si ribella contro nel suo stesso corpo. È questo che spezza il tempo, il suo e quello della narrazione cinematografica. Così come ai suoi occhi, anche ai nostri il prima e il poi si confondono. Con intelligenza e sensibilità, la sceneggiatura non si preoccupa di mettere in fila, uno dietro l'altro, i fatti che portano Maria in ospedale, e che la costringono a passare giorni e settimane accanto al bianco tecnologico e asettico di un'incubatrice. Semplicemente, improvvisamente, la racconta e la mostra svuotata della vita che la riempiva, e anzi svuotata d'ogni vita.
La sua angoscia, sconfinata e inafferrabile, nasce dalla separazione fisica da Irene, come la convince a chiamare la figlia non ancora nata Giovanni (Gaetano Bruno), il "dottorino" che la assiste. E questa angoscia la induce a smettere d'esser madre dei suoi allievi, che abbandona alla loro fatica d'ogni sera. D'altra parte, non c'è più sera e non c'è più giorno nella sua vita. Immobile, quasi incatenata all'incubatrice, il tempo le si è ridotto a un presente senza direzione né senso. Del passato le giungono solo immagini frammentarie: l'amore di Pietro, soprattutto, e la sua fuga nella simmetria insensata della marcia di un gruppo di turisti irreggimentati in piazza del Plebiscito, nel centro di Napoli; e poi anche lo spezzarsi nel suo corpo del legame con la figlia. Quanto al futuro, ogni sua immagine s'è persanella mancanza che le si è aperta dentro.
Questa mancanza, per paradosso, è però anche tutto ciò che le resta. Solo lì, in quello spazio vuoto abissalmente suo, può e deve ritrovarsi. Nella figlia non ancora nata, ma neppure ancora morta, può e deve imparare a diventar madre, o a ridiventarlo: madre di Irene, e madre anche degli scarti e dei residui d'umanità affidati alla sua cura d'insegnante. Con amore e pudore, il cinema di Francesca Comencini e la recitazione di Margherita Buy la accompagnano in questo suo lavoro interiore, in questa sua difficile, incerta, coraggiosa ricostruzione del tempo.
Da Il Sole-24 Ore, 25 Ottobre 2009

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