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La isla minima


Cineforum
ven 26
_2 ore 21.15

 GENERE: Thriller
ANNO: 2015
REGIA: Alberto Rodriguez (II)
ATTORI: Raúl Arévalo, Javier Gutiérrez, Antonio de la Torre, Nerea Barros, Manolo Solo
SCENEGGIATURA: Alberto Rodriguez (II), Rafael Cobos
MONTAGGIO: J. Manuel García Moyano
MUSICHE: Julio De La Rosa
PAESE: Spagna
DURATA: 105 Min







Trama
Profondo Sud della Spagna, 1980. In un piccolo villaggio nei pressi di un labirinto di paludi e risaie opera da qualche anno un serial killer responsabile della scomparsa di alcune adolescenti. Quando due giovani sorelle spariscono durante la festa del paese la madre chiede un'indagine e due detective della omicidi arrivano da Madrid per cercare di risolvere il mistero. Sia Juan che Pedro hanno una vasta esperienza nei casi di sparizioni con possibili omicidi ma differiscono nei metodi e nello stile. Dovranno ben presto fronteggiare ostacoli per i quali non sono preparati.

Recensione
Arriva anche sui nostri schermi il film spagnolo che fatto incetta di premi nel 2014 (tra cui ben 10 Goya). Premi che si possono considerare meritati se lo si guarda non tanto con gli occhi dell'appassionato di thriller o di detection quanto piuttosto di chi, nel genere, cerca una lettura di una società. Perché di coppie di detective dalle personalità divergenti il cinema ce ne ha proposte in numero consistente e la televisione ha raggiunto una delle sue punte di eccellenza con la prima stagione della serie True Detective in cui agiscono due investigatori estremamente diversi tra loro per metodi e visioni della professione. Altrettanto utilizzata è l'idea del decentramento, cioè della immissione di coloro che indagano come corpi estranei in un microcosmo che diffida di loro. Ciò che conta quindi non è tanto scoprire il colpevole e vedere se sarà o meno punito quanto piuttosto la descrizione di una Spagna che, a pochi anni dalla morte del caudillo Francisco Franco, affronta il difficile percorso verso la democrazia.
La foce del Guadalquivir con le sue risaie inquadrate in più occasioni a piombo dall'alto ben rappresenta una nazione politicamente ancora 'paludosa' e i due protagonisti ne incarnano alla perfezione la difficoltà di decodifica. Se Juan è sempre pronto a mangiare e ad entrare in contatto con la realtà locale (anche se con una sofferenza sul piano fisico che tiene nascosta) Pedro è chiuso e di poche parole. La stessa collocazione sul versante politico sembra distanziarli in modo determinante. Ma - e qui il film acquista un suo peso specifico che trasforma il thriller in riflessione e in occasione di memoria di un passato non poi così lontano - entrambi sono cresciuti durante il franchismo che, in qualche misura, ha finito per permearne il comportamento anche quando questo è in suo aperto contrasto. Quando il magistrato, che ha i suoi dubbi non del tutto adamantini nei confronti del prosieguo dell'inchiesta, ricorda loro che 'ora siamo in democrazia' li mette dinanzi a uno specchio in cui rischiano di finire con l'assomigliarsi.
La isla minima si ritrova così ad essere un thriller della coscienza (politica e sociale) ricordandoci quanto sia difficile (e talvolta a lungo incompiuto) il passaggio per un Paese dalla dittatura alla libertà. Giancarlo Zappoli 

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Marguerite


ven 19_2 ore 21.15

GENERE: Drammatico
ANNO: 2015
REGIA: Xavier Giannoli
ATTORI: Catherine Frot, André Marcon, Michel Fau, Christa Theret
SCENEGGIATURA: Xavier Giannoli, Marcia Romano
FOTOGRAFIA: Glynn Speeckaert
MONTAGGIO: Cyril Nakache
PAESE: Francia, Repubblica Ceca, Belgio
DURATA: 127 Min








Trama
Marguerite, baronessa francese e melomane, ha sposato per amore Georges Dumont, aristocratico che ha venduto il titolo e scordato la nobiltà. Diviso tra motori e amanti, Georges sopporta Marguerite e si nega al suo amore. Un amore cieco e ostinato che sublima nel canto e davanti a un pubblico di aristocratici ipocriti, che raccolgono fondi per gli orfani di guerra e ridono della sua ‘discordanza’. Perché Marguerite non ha voce, non ha attitudine, non ha umiltà, non ha limiti, soltanto illusioni alimentate dal fedele maggiordomo, dall’entourage domestico e da un marito troppo vigliacco per disilluderla e tanto crudele da illuderla. Al riparo dalla Parigi degli anni Venti, che ribolle di eccitazione e cultura, Marguerite consuma le sue giornate in un ‘castello’ bucolico, sorda alla verità. A espugnare il suo ritiro ‘artistico’ penseranno Lucien Beaumont, giornalista e scrittore promettente, e Kyrill von Priest, poeta dadaista e anarchico. Nella baronessa ‘stonata’ i due giovani individuano una voce di ‘rottura’ da traslocare nei café parigini per demolire il sistema dell’arte e per sovvertire le aspettative del pubblico borghese. Fuori dalle sue stanze traboccanti di costumi, spartiti e desideri infranti, Marguerite trova sfrontatezza e coraggio. Salirà in palcoscenico e canterà questa volta per un pubblico vero. Un salto senza rete che si schianterà contro un acuto.

Recensione

Ha il nome dell’eroina di Alexandre Dumas, la baronessa francese di Xavier Giannoli, incarnazione di una passione senza ‘voce’. Della ‘signora delle camelie’, Marguerite condivide il destino tragico, quello grottesco lo ricava invece da Florence Foster Jenkins, ‘soprano’ americano senza colori che nell’America degli anni Trenta mise a dura prova il suo pubblico. Impossibile applicare con le chanteuses la ‘sospensione dell’incredulità’ perché l’incongruenza della loro voce, la loro totale mancanza di intonazione rendono la fruizione di un’aria o di un lied insostenibile e insieme esilarante. Traslocata nella Parigi cosmopolita, mondana e liberale degli anni Venti, Marguerite non potrà mai compensare la mancanza di capacità o attitudini di base, eppure questo non sembra fermarla. La percezione della propria efficacia, sostenuta e accresciuta da consorti e amici, fa di Marguerite una creatura insieme tragica e patetica. Con Marguerite e dopo Superstar, Xavier Giannoli torna a parlare di ‘falso successo’ senza dare risposte ma sollevando al contrario questioni. La menzogna (la nostra e quella degli altri) ci uccide? Ci tiene in vita? Ci rende folli? In linea col ‘tempo’ eletto e alla maniera di Marcel Duchamp, il regista francese ‘preleva’ un (s)oggetto comune dal suo contesto e lo inserisce in uno spazio artistico cambiandone il segno. Ma Giannoli, meno interessato alla valenza provocatoria del gesto, solleva oggi come allora alcune domande fondamentali riguardo ai meccanismi che stanno alla base di un evento estetico o di uno show (teatrale o televisivo che sia). Il punto di vista assunto è ancora una volta quello di un personaggio ingenuo e naïf, di cui l’autore, come uno dei suoi anarchici artisti, intende la natura ‘irriverente’. Precipitata in costumi aristocratici nel fervore dell’avanguardia francese, Marguerite è ammirata e accolta come una rivoluzionaria da un giovane dadaista che intuisce in lei lo scandalo, il momento di pura negazione, l’annientamento gridato di un’aura poetica dentro i teatri e i music hall parigini, palcoscenici delle più imprevedibili e radicali provocazioni artistiche del Novecento. Eroina perturbante e onirica, prima che ridicola e mesta, la Marguerite di Catherine Frot è la magnifica incarnazione di uno spirito (suo malgrado) ribelle e iconoclasta, una sorta di creazione dadaista lanciata contro le convenzioni morali e culturali della società borghese (matrimonio compreso). Marguerite è il sogno di un mondo migliore, una ‘voce di rottura’ che vince ogni inibizione e risveglia il desiderio e l’immaginazione. Ma qualche volta il risveglio può essere fatale se alla demolizione del vecchio sistema non subentra una nuova normativa estetica o peggio non ci abiti la vocazione, lo stile e l’autentica sensibilità che gli corrisponde. A corrispondere la persuasione esaltata e irriducibile di Marguerite è soltanto la menzogna, la crudeltà, l’opportunismo e la pietà. Interpretato ‘liricamente’ da Catherine Frot, declinata in melodramma, Marguerite perde troppo presto l’urgenza di una storia e di una riflessione, sospendendo lo sviluppo per limitarsi alla collezione di ‘fotografie’. Un film scordato che tuttavia rispolvera il maggiordomo zelante di Billy Wilder (Viale del tramonto) e la grazia e l’implacabilità classista di Max Ophüls. Marzia Gandolfi

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Perfetti sconosciuti


gio 18_2 ore 21.15
sab 20_2 ore 21.15
dom 21_2 ore 18.00 e 21.15
DATA USCITA: 11 febbraio 2016
GENERE: Commedia
ANNO: 2016
REGIA: Paolo Genovese
ATTORI: Kasia Smutniak, Marco Giallini, Valerio Mastandrea, Anna Foglietta, Giuseppe Battiston, Edoardo Leo, Alba Rohrwacher
SCENEGGIATURA: Filippo Bologna, Paolo Costella, Paolo Genovese, Paola Mammini, Rolando Ravello
FOTOGRAFIA: Consuelo Catucci, Fabrizio Lucci
MUSICHE: Maurizio Filardo
PAESE: Italia
DURATA: 97 Min



 Trama
Quante coppie si sfascerebbero se uno dei due guardasse nel cellulare dell'altro? È questa la premessa narrativa dietro la storia di un gruppo di amici di lunga data che si incontrano per una cena destinata a trasformarsi in un gioco al massacro. E la parola gioco è forse la più importante di tutte, perché è proprio l'utilizzo "ludico" dei nuovi "facilitatori di comunicazione" - chat, whatsapp, mail, sms, selfie, app, t9, skype, social - a svelarne la natura più pericolosa: la superficialità con cui (quasi) tutti affidano i propri segreti a quella scatola nera che è il proprio smartphone (o tablet, o pc) credendosi moderni e pensando di non andare incontro a conseguenze, o peggio ancora, flirtando con quelle conseguenze per rendere tutto più eccitante. I "perfetti sconosciuti" di Genovese in realtà si conoscono da una vita, si reggono il gioco a vicenda e fanno fin da piccoli il gioco della verità, ben sapendo che di divertente in certi esperimenti c'è ben poco. E si ostinano a non capire che è la protezione dell'altro, anche da tutto questo, a riempire la vita di senso.

Recensione
Paolo Genovese affronta di petto il modo in cui l'allargarsi dei cerchi nell'acqua di questi "giochi" finisca per rivelare la "frangibilità" di tutti: e la scelta stessa di questo vocabolo al limite del neologismo, assai legato alla delicatezza strutturale di strumenti così poco affidabili e per loro stessa natura caduchi come i nuovi media, indica la serietà con cui il team degli sceneggiatori ha lavorato su un argomento che definire spinoso è poco, visto che oggi riguarda (quasi) tutti. Per una volta il numero degli sceneggiatori (cinque in questo caso, fra cui lo stesso Genovese, senza contare l'intervento importante degli attori che si sono cuciti addosso i rispettivi dialoghi) non denota caos e debolezza strutturale, ma sforzo corale per raccontare una storia che è intrinsecamente fatta di frammenti (verrebbe da dire di bit, byte e pixel), corsa ad aggiungere esempi sempre più calzanti tratti dal reale.
Il copione lavora bene sugli incastri e sugli snodi narrativi che rimangono fondamentalmente credibili, instilla verità nei dialoghi (che certamente verranno riecheggiati sui social e nelle conversazioni da salotto, perché questo fanno certe "conversazioni": l'eco), descrive tipi umani riconoscibili. Il cast, anch'esso corale, fa onore al testo, e ognuno aggiunge al proprio ruolo una parte di sé, un proprio timore reale. Perché questa società così liquida da tracimare di continuo, sommergendo ogni nostra certezza, fa paura a tutti, e tutti ne portiamo già le cicatrici, abbiamo già assunto la posizione del pugile che incassa e cerca di restare in piedi (o sopravvivere, come canta il motivo di apertura sopra i titoli di testa).
Il tono è adeguato alla narrazione: non melodrammatico (alla L'ultimo bacio), non romanticamente nostalgico (alla Il nome del figlio), non farsesco, non cinico, ma comico al punto giusto, con sfumature sarcastiche e iniezioni di dolore. Questa "cena delle beffe" attinge a molto cinema francese e americano, ma la declinazione dei rapporti fra i commensali è italiana, con continui riferimenti a un presente in cui il lavoro è precario, i legami fragili e i sogni impossibili. La scrittura è crudele, precisa, disincantata, e ha il coraggio di lasciare appese alcune linee narrative, senza la compulsione televisiva a chiudere ogni scena. C'è anche una coda alla Sliding Doors che mostra come il "gioco" (prima che diventi al massacro) sia gestibile solo con l'ipocrisia e l'accettazione di certe regole non scritte: ed è questa la strada che più spesso scelgono gli esseri "frangibili".
Quello che ancora manca, a ben guardare, è quella profondità abissale, quella vertigine di consapevolezza regalata agli spettatori senza preavviso dal miglior cinema italiano, su tutti quello di Ettore Scola (non a caso anche qui c'è una terrazza). Ma questa non è colpa degli sceneggiatori o del regista, è segno dei tempi, giacchè la "frangibilità" delle identità e dei rapporti consente al massimo la rivelazione di qualche doppiofondo, non quella sospensione sull'orlo dell'abisso che, come canta il bardo della nostra epoca inconsistente, "non è paura di cadere ma voglia di volare".  Paola Casella 


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Il viaggio di Norm


Cinema Junior
dom 21_2 ore 15.00
 GENERE: Animazione , Avventura , Commedia , Family
ANNO: 2016
REGIA: Trevor Wall
ATTORI: Rob Schneider, Heather Graham, Ken Jeong, Bill Nighy
SCENEGGIATURA: Jack Donaldson
PAESE: USA, India
DURATA: 90 Min








Recensione
Norm, un orso bianco e vegano e ballerino con la straordinaria capacità di parlare la lingua umana, deve lasciare il Polo Nord per raggiungere New York e fermare lo spietato costruttore Mr. Grenne, che sta per mettere in atto un piano di edificazione del Circolo Polare Artico destinato a mandarne in frantumi l'ecosistema.
Approfondimenti

A tempo debito


Cineforum, serata live
ven 12_2 ore 21.00


Locandina A tempo debito Regia di Christian Cinetto.
Produzione: Jenga Film
Genere: Documentario
Durata 82 min.
Paese: Italia 2015












A TEMPO DEBITO Trailer from Jengafilm on Vimeo.



Trama
Ottobre 2013, Casa Circondariale di Padova. Una mini troupe entra in carcere per vivere a contatto con i detenuti e farli realizzare un cortometraggio. Si presentano al casting in 40, quasi tutti in attesa di giudizio. A tempo debito racconta il dietro le quinte di questa produzione e l’incontro tra 15 detenuti di 7 nazionalità diverse attraverso lezioni di recitazione e di sceneggiatura. Non si conosce la ragione della loro reclusione, ma guidati dalla fiducia dei loro sguardi e dall’istinto, si procede settimana dopo settimana tra momenti divertenti, attimi commoventi e qualche tensione. Dopo 5 mesi di intensi incontri e di prove, finalmente si gira. E qualcosa è cambiato...

Note di Regia
"Uno è portato a pensare che i film ambientati in carcere parlino di carcere, di sbarre, di violenza,
di soprusi. Da un documentario ambientato in carcere ci si aspetta di vedere il lato oscuro di un
luogo, di sentire parlare i detenuti sulla libertà o sulla presunzione di innocenza.
Tutto ciò è comprensibile, è anche confortevole come esperienza di spettatore allenato.
Eppure A tempo debito ha molto poco di tutto ciò. Chi vorrà vederlo dovrà essere disposto ad
uscire dalla sala facendosi delle domande scomode. Non sul carcere, ma su se stesso.
82 minuti che cambiano la prospettiva. Almeno un po’."

Principali Festival e premi
Festival del cinema italiano di Annecy, Francia
Grand Prix du documentaire
Premio della giuria giovani
International Film Festival for Peace, Inspiration and Equality, Giacarta, Indonesia
Merit of Honor
Filmmaker of Equality
Festival internazionale El Ojo Cojo, Madrid
Menzione speciale della giuria
Festival internazionale dei diritti umani di Todi, Italia
Premio AAMOD, miglior lungometraggio
Menzione speciale della giuria giovani
Social World Film Festival, AIFF, Youth and Peace International Film Festival

La grande scommessa


gio 4_2 ore 21.15
sab 6_2 ore 21.15
dom 7_2 ore 18.00 e 21.15

GENERE: Drammatico
ANNO: 2016
REGIA: Adam McKay
ATTORI: Brad Pitt, Christian Bale, Ryan Gosling, Selena Gomez, Marisa Tomei, Steve Carell, Melissa Leo, John Magaro, Finn Wittrock, Karen Gillan, Max Greenfield, Jeremy Strong, Margot Robbie, Billy Magnussen, Rafe Spall, Hamish Linklater
SCENEGGIATURA: Adam McKay, Charles Randolph
PAESE: USA
DURATA: 130 Min


Trama
Nell'anno 2005, il mercato immobiliare americano appariva più stabile e florido che mai. Chiunque chiedesse un mutuo, preferibilmente a tasso variabile, era quasi certo di ottenerlo. Per questo, quando Michael Burry si presentò in diverse banche per scommettere sostanzialmente contro l'andamento del mercato, nessuno gli negò la possibilità di farlo, e anzi gli risero alle spalle. Michael Burry, però, aveva visto quello che il mondo non vedeva ancora: una pericolosa e crescente instabilità del sistema, peggiorata dalla vendita smodata di pacchetti azionari pressoché nulli, etichettati in maniera fraudolenta. 

Recensione
Il film racconta dunque la scoperta più o meno contemporanea da parte di alcuni uomini della gigantesca "bolla" cresciuta in seno al mercato immobiliare e destinata a scoppiare un paio d'anni dopo con effetti disastrosi. Com'è possibile conciliare lo spettacolo cinematografico, e il tasso fisso d'intrattenimento che deve assicurare, con il racconto di un crack finanziario, dove i protagonisti hanno nomi quali CDO e AAA e la cosa si fa appassionante man mano che si complica? Beh, The Big Short (letteralmente: "il grande scoperto") dimostra che è possibile; scommette contro le regole date per marmoree del racconto filmico mainstream e vince. Anzi, dati il paradosso a monte e la sorpresa a valle, si può affermare che il film di Adam McKay stravinca, lasciando lo spettatore piacevolmente preso in contropiede.
Questo gioco al ribaltamento sulle aspettative di un pubblico ignaro e impreparato, che funziona bene ad una prima visione, non esaurisce però i meriti del film, che poggia invece su un'architettura narrativa solidissima, ispirata dal libro di Michael Lewis che sta alla base del copione, e su un potente e stratificato ritratto dei personaggi, dove la dimensione della star platealmente travestita e trasformata si assomma al personaggio socialmente eccentrico (ma, in fondo, più vero e all'opposto dello stereotipo) e ad un'avvisaglia di back-story, tutt'altro che leggera, nei casi di Christian Bale e Steve Carell, che li conferma protagonisti assoluti.
Verboso e nevrotico, il film di McKay è anche punteggiato di alcune riuscite trovate autoironiche, quali la scelta di lasciare le spiegazioni più tecniche a Margot Robbie o Selena Gomez, riprese in contesti vergognosamente deputati al lusso e al piacere, e interpellate col loro nome, "bucando" così la parete della mezza finzione per sconfinare comunque in un altro artificio.
Alla fine dei conti, però, l'affondo che porta il film alla vittoria, riporta il castello di carte ad un terreno di scontro umano e comune: alla scelta personale che Baum/Carell è obbligato a compiere al termine della sua crociata e all'epilogo storico e giuridico della grande truffa delle banche. Un epilogo onesto e amaro, in cui il tasso variabile che oscilla più spaventosamente non è quello del mutuo ma della morale.  Marianna Cappi

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