Perfetti sconosciuti
gio 18_2 ore 21.15
sab 20_2 ore 21.15
dom 21_2 ore 18.00 e 21.15
GENERE: Commedia
ANNO: 2016
REGIA: Paolo Genovese
ATTORI: Kasia Smutniak, Marco Giallini, Valerio Mastandrea, Anna Foglietta, Giuseppe Battiston, Edoardo Leo, Alba Rohrwacher
SCENEGGIATURA: Filippo Bologna, Paolo Costella, Paolo Genovese, Paola Mammini, Rolando Ravello
FOTOGRAFIA: Consuelo Catucci, Fabrizio Lucci
MUSICHE: Maurizio Filardo
PAESE: Italia
DURATA: 97 Min
Trama
Quante coppie si sfascerebbero se uno dei due guardasse nel cellulare
dell'altro? È questa la premessa narrativa dietro la storia di un gruppo
di amici di lunga data che si incontrano per una cena destinata a
trasformarsi in un gioco al massacro. E la parola gioco è forse la più
importante di tutte, perché è proprio l'utilizzo "ludico" dei nuovi
"facilitatori di comunicazione" - chat, whatsapp, mail, sms, selfie,
app, t9, skype, social - a svelarne la natura più pericolosa: la
superficialità con cui (quasi) tutti affidano i propri segreti a quella
scatola nera che è il proprio smartphone (o tablet, o pc) credendosi
moderni e pensando di non andare incontro a conseguenze, o peggio
ancora, flirtando con quelle conseguenze per rendere tutto più
eccitante. I "perfetti sconosciuti" di Genovese in realtà si conoscono
da una vita, si reggono il gioco a vicenda e fanno fin da piccoli il
gioco della verità, ben sapendo che di divertente in certi esperimenti
c'è ben poco. E si ostinano a non capire che è la protezione dell'altro,
anche da tutto questo, a riempire la vita di senso.
Recensione
Paolo Genovese affronta di petto il modo in cui l'allargarsi dei cerchi
nell'acqua di questi "giochi" finisca per rivelare la "frangibilità" di
tutti: e la scelta stessa di questo vocabolo al limite del neologismo,
assai legato alla delicatezza strutturale di strumenti così poco
affidabili e per loro stessa natura caduchi come i nuovi media, indica
la serietà con cui il team degli sceneggiatori ha lavorato su un
argomento che definire spinoso è poco, visto che oggi riguarda (quasi)
tutti. Per una volta il numero degli sceneggiatori (cinque in questo
caso, fra cui lo stesso Genovese, senza contare l'intervento importante
degli attori che si sono cuciti addosso i rispettivi dialoghi) non
denota caos e debolezza strutturale, ma sforzo corale per raccontare una
storia che è intrinsecamente fatta di frammenti (verrebbe da dire di
bit, byte e pixel), corsa ad aggiungere esempi sempre più calzanti
tratti dal reale.
Il copione lavora bene sugli incastri e sugli snodi narrativi che rimangono fondamentalmente credibili, instilla verità nei dialoghi (che certamente verranno riecheggiati sui social e nelle conversazioni da salotto, perché questo fanno certe "conversazioni": l'eco), descrive tipi umani riconoscibili. Il cast, anch'esso corale, fa onore al testo, e ognuno aggiunge al proprio ruolo una parte di sé, un proprio timore reale. Perché questa società così liquida da tracimare di continuo, sommergendo ogni nostra certezza, fa paura a tutti, e tutti ne portiamo già le cicatrici, abbiamo già assunto la posizione del pugile che incassa e cerca di restare in piedi (o sopravvivere, come canta il motivo di apertura sopra i titoli di testa).
Il tono è adeguato alla narrazione: non melodrammatico (alla L'ultimo bacio), non romanticamente nostalgico (alla Il nome del figlio), non farsesco, non cinico, ma comico al punto giusto, con sfumature sarcastiche e iniezioni di dolore. Questa "cena delle beffe" attinge a molto cinema francese e americano, ma la declinazione dei rapporti fra i commensali è italiana, con continui riferimenti a un presente in cui il lavoro è precario, i legami fragili e i sogni impossibili. La scrittura è crudele, precisa, disincantata, e ha il coraggio di lasciare appese alcune linee narrative, senza la compulsione televisiva a chiudere ogni scena. C'è anche una coda alla Sliding Doors che mostra come il "gioco" (prima che diventi al massacro) sia gestibile solo con l'ipocrisia e l'accettazione di certe regole non scritte: ed è questa la strada che più spesso scelgono gli esseri "frangibili".
Quello che ancora manca, a ben guardare, è quella profondità abissale, quella vertigine di consapevolezza regalata agli spettatori senza preavviso dal miglior cinema italiano, su tutti quello di Ettore Scola (non a caso anche qui c'è una terrazza). Ma questa non è colpa degli sceneggiatori o del regista, è segno dei tempi, giacchè la "frangibilità" delle identità e dei rapporti consente al massimo la rivelazione di qualche doppiofondo, non quella sospensione sull'orlo dell'abisso che, come canta il bardo della nostra epoca inconsistente, "non è paura di cadere ma voglia di volare". Paola Casella
Il copione lavora bene sugli incastri e sugli snodi narrativi che rimangono fondamentalmente credibili, instilla verità nei dialoghi (che certamente verranno riecheggiati sui social e nelle conversazioni da salotto, perché questo fanno certe "conversazioni": l'eco), descrive tipi umani riconoscibili. Il cast, anch'esso corale, fa onore al testo, e ognuno aggiunge al proprio ruolo una parte di sé, un proprio timore reale. Perché questa società così liquida da tracimare di continuo, sommergendo ogni nostra certezza, fa paura a tutti, e tutti ne portiamo già le cicatrici, abbiamo già assunto la posizione del pugile che incassa e cerca di restare in piedi (o sopravvivere, come canta il motivo di apertura sopra i titoli di testa).
Il tono è adeguato alla narrazione: non melodrammatico (alla L'ultimo bacio), non romanticamente nostalgico (alla Il nome del figlio), non farsesco, non cinico, ma comico al punto giusto, con sfumature sarcastiche e iniezioni di dolore. Questa "cena delle beffe" attinge a molto cinema francese e americano, ma la declinazione dei rapporti fra i commensali è italiana, con continui riferimenti a un presente in cui il lavoro è precario, i legami fragili e i sogni impossibili. La scrittura è crudele, precisa, disincantata, e ha il coraggio di lasciare appese alcune linee narrative, senza la compulsione televisiva a chiudere ogni scena. C'è anche una coda alla Sliding Doors che mostra come il "gioco" (prima che diventi al massacro) sia gestibile solo con l'ipocrisia e l'accettazione di certe regole non scritte: ed è questa la strada che più spesso scelgono gli esseri "frangibili".
Quello che ancora manca, a ben guardare, è quella profondità abissale, quella vertigine di consapevolezza regalata agli spettatori senza preavviso dal miglior cinema italiano, su tutti quello di Ettore Scola (non a caso anche qui c'è una terrazza). Ma questa non è colpa degli sceneggiatori o del regista, è segno dei tempi, giacchè la "frangibilità" delle identità e dei rapporti consente al massimo la rivelazione di qualche doppiofondo, non quella sospensione sull'orlo dell'abisso che, come canta il bardo della nostra epoca inconsistente, "non è paura di cadere ma voglia di volare". Paola Casella
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